Il futuro immediato di Gaza e della tregua firmata lo scorso 15 gennaio continua a rimanere avvolto nell’incertezza per via delle manovre del regime di Netanyahu e della doppiezza dell’amministrazione Trump. Il presidente americano ha recentemente respinto il piano alternativo per la ricostruzione della striscia, presentato dall’Egitto e dalla Lega Araba, e lanciato un nuovo feroce ultimatum a Hamas per il rilascio dei rimanenti prigionieri israeliani. Dall’altro lato, però, mercoledì è circolata la notizia di trattative dirette tra gli inviati della Casa Bianca e il movimento di liberazione palestinese che controlla Gaza. Quello in atto sembra essere un gioco di equilibrismi tra il sostegno ai progetti coloniali e genocidi dello stato ebraico e gli sforzi per evitare che la regione esploda in un conflitto generalizzato.

Alcuni commentatori hanno visto nelle discussioni tra USA e Hamas una possibile breccia nell’allineamento virtualmente perfetto tra Washington e Tel Aviv. Fonti del governo israeliano hanno infatti rilasciato dichiarazioni poco entusiaste riguardo la notizia. Un anonimo membro di Hamas ha spiegato da parte sua alla testata libanese Al Mayadeen che l’incontro con gli inviati di Trump ha lasciato una “impressione positiva” e generato un moderato ottimismo in prospettiva di un negoziato tra le due parti. Allo stesso tempo, l’esponente del movimento palestinese ha ammesso che il “focus” americano è soltanto sullo scambio di prigionieri, mentre non è stato espresso interesse sulle questioni cruciali e di portata più vasta relative alle condizioni del cessate il fuoco e alla fine della guerra a Gaza.

La fonte di Al Mayadeen ha in ogni caso rivelato che il colloquio è avvenuto su richiesta degli Stati Uniti e ha colto Israele di sorpresa. Questi sviluppi sembrano confermare che le dichiarazioni pubbliche di Trump non corrispondono del tutto alle azioni che avvengono dietro le quinte. In questa prospettiva, potrebbe rappresentare una tattica negoziale il già ricordato ultimatum indirizzato a Hamas. Come aveva già fatto qualche settimana fa per poi frenare qualche giorno più tardi, Trump ha imposto la liberazione immediata di tutti gli “ostaggi”, la consegna dei cadaveri e l’evacuazione dei membri di Hamas dalla striscia. In caso contrario, Hamas andrà incontro a “distruzione certa”, anche se non sono chiare le eventuali modalità dopo quindici mesi di massacri che non hanno piegato il movimento e i suoi uomini.

La minaccia del presidente americano riflette l’atteggiamento di Israele riguardo la tregua. L’intenzione di Netanyahu è di boicottare le trattative violando ripetutamente i termini dell’accordo e introducendo condizioni mai concordate con Hamas. La fine della “prima fase” del cessate il fuoco nei giorni scorsi ha visto il regime sionista prendere tempo e cercare di cambiare le carte in tavola con una sorta di proroga che Hamas ha correttamente giudicato come il tentativo di ottenere la liberazione dei prigionieri israeliani ancora a Gaza senza alcun impegno per una soluzione definitiva.

Da oltre un anno, Netanyahu continua d’altronde a sfruttare il processo diplomatico per portare avanti i propri piani. In questo frangente, ciò che si osserva è il tentativo appunto di rimandare o far saltare del tutto i negoziati sulla definizione della seconda fase della tregua, poiché quest’ultima, se implementata, faciliterebbe uno stop definitivo dell’aggressione nella striscia, generando serissimi problemi politici sul fronte domestico per il premier israeliano.

Il regime di Netanyahu ha facoltà ad ogni modo di agire nella totale impunità, massacrando civili e calpestando impegni che ha sottoscritto grazie alla protezione e alla complicità degli Stati Uniti e dell’Occidente in genere. Secondo i dati del ministero della Sanità di Gaza, sono 121 i palestinesi uccisi dalle forze israeliane dall’inizio della tregua. Testimonianze dalla striscia raccontano di situazioni sempre più frequenti in cui gli occupanti agiscono esattamente come durante le fasi più calde della guerra. Sempre per fare pressioni su Hamas, nei giorni scorsi Israele ha anche ordinato il blocco di tutti gli aiuti umanitari in ingresso nella striscia, così da aggravare drammaticamente una crisi già fuori controllo.

La questione della tregua si sovrappone a quella dei piani per il futuro e la ricostruzione di Gaza. Quello presentato dall’Egitto e approvato dalla Lega Araba nei giorni scorsi, che prevede la permanenza nella striscia dei suoi abitanti, è stato bocciato dall’amministrazione Trump, che ha rilanciato il progetto “Riviera” del presidente, basato sulla pulizia etnica. Il piano egiziano non ha evidentemente la forza necessaria per introdursi come elemento decisivo nella risoluzione della crisi in atto, viste le divisioni che caratterizzano i paesi arabi e la sostanziale sottomissione agli Stati Uniti e ai loro interessi invece di formulare e perseguire politiche che mettano realmente al centro la sovranità palestinese e i legittimi diritti di questo popolo.

I punti principali del piano studiato dal Cairo sono, da un lato, il tentativo di rendere finanziariamente attrattiva la ricostruzione della striscia e, dall’altro, la marginalizzazione di Hamas, cioè la consegna della governance di questo territorio a forze straniere – sotto forma di una non meglio definita “commissione tecnica” che dovrebbe governare per alcuni mesi – o alla ultra-screditata Autorità Palestinese. Ciò costituisce chiaramente uno schiaffo alle aspirazioni e ai diritti democratici dei palestinesi, ma corrisponde alle posizioni anche di svariati regimi arabi, come Arabia Saudita ed Emirati, che puntano alla liquidazione di Hamas da Gaza. Un obiettivo che li accomuna di fatto a USA e Israele, nonostante entrambi formalmente chiedano progressi concreti verso una sempre più improbabile soluzione a “due stati”.

Hamas ha cautamente approvato il piano della Lega Araba, ma ha ribadito che non intende privarsi delle armi, mentre non mette come prerequisito fondamentale la propria permanenza al governo di Gaza. La presenza del movimento di liberazione palestinese resta quindi un impedimento ai progressi diplomatici, ma il problema non è rappresentato da Hamas, bensì da USA, Israele e i paesi arabi che ne vogliono la distruzione.

L’ostilità nei confronti di Hamas non è determinata dalla natura “terroristica” dell’organizzazione. Questa caratterizzazione è infatti a dir poco discutibile sia alla luce del cambiamento della propria strategia militare ormai da molti anni, sia del confronto con il regime sionista di occupazione, che opera invece esso stesso come un’entità terroristica, oltretutto senza pagare nessuna conseguenza. Ciò che i suoi nemici non possono accettare è la battaglia che Hamas conduce per la liberazione della Palestina, al di là dei giudizi su operazioni come quella del 7 ottobre 2023, senza compromessi né sottomissione all’America o a Israele, come è nella natura invece dell’Autorità Palestinese.

Il mancato scioglimento del nodo del futuro governo della striscia neutralizza dunque sul nascere il piano egiziano, visto che scontenta sia la resistenza a Gaza sia gli USA e Israele. Senza un fronte arabo compatto con al centro realmente i diritti dei palestinesi, i prossimi sviluppi della crisi vedranno avanzare i progetti genocidi del regime sionista, con una ripresa aperta della sanguinosa aggressione sospesa dalla tregua oppure attraverso misure graduali per strangolare e liquidare allo stesso modo la popolazione della striscia.

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