L’area del Pacifico è in questi giorni nuovamente interessata da gravi tensioni tra il fronte filo-americano e la Cina dopo che Pechino ha mandato in porto un accordo di “cooperazione strategica” con il governo delle isole Cook. Questo arcipelago di appena 15 mila abitanti è una sorta di semi-colonia della Nuova Zelanda e qualsiasi iniziativa della sua classe politica che metta in discussione lo status quo, tanto più aprendo spazi alla penetrazione cinese, viene vista come una minaccia inaccettabile. Il primo ministro delle Cook, Mark Brown, ha cercato in tutti i modi di rassicurare il governo neozelandese, ma in un quadro regionale segnato dalla crescente competizione con la Cina è improbabile che la questione venga dimenticata in fretta, nonostante il pieno diritto del piccolo paese del Pacifico a esplorare qualsiasi opportunità di sviluppo economico.

Le isole Cook sono state una colonia di Wellington fino al 1965 e successivamente questo territorio ha ottenuto l’autogoverno all’interno di una “libera associazione” con la Nuova Zelanda, di cui gli abitanti dell’arcipelago detengono il passaporto. La Nuova Zelanda ha giurisdizione invece in materia di difesa e affari esteri. Su queste stesse questioni, i due governi hanno firmato una “dichiarazione congiunta” nel 2001 che impegna entrambi a consultarsi in caso di nuove iniziative. Cook e Nuova Zelanda collaborano, ovvero la prima dipende in buona parte dalla seconda, anche per quanto riguarda ambiti come la sanità, l’educazione e i servizi di emergenza. Le isole Cook hanno comunque facoltà di dichiarare unilateralmente la piena indipendenza.

Come hanno fatto vari paesi del Pacifico negli ultimi anni, tra cui recentemente e con le conseguenze più gravi in termini di stabilità le isole Salomone, anche le Cook hanno stabilito rapporti sempre più stretti con Pechino. Queste dinamiche sono la diretta conseguenza della strategia cinese di allargamento della propria influenza in aree strategicamente cruciali alla propria periferia, sia per perseguire occasioni commerciali e legate allo sfruttamento di determinate risorse sia per rompere il tentativo di accerchiamento degli Stati Uniti e dei loro alleati.

A loro volta, paesi di piccole dimensioni e spesso impoveriti sono ben disposti verso le possibilità di collaborazione, di utilizzo delle proprie risorse, di sviluppo infrastrutturale e di ottenere aiuti economici che comporta una partnership con la Repubblica Popolare. Questo aspetto risulta determinante non tanto – o non solo – alla luce di possibili pressioni o manovre corruttive da parte di Pechino, ma soprattutto per l’oggettiva assenza di benefici concreti derivanti dalle relazioni neo-coloniali che nel Pacifico coinvolgono Australia, Nuova Zelanda e Stati Uniti.

Il ministro degli Esteri neozelandese, Winston Peters, ha elencato nei giorni scorsi i vantaggi che le Cook trarrebbero dalla generosità del suo paese. In realtà, il bilancio stanziato dalla Nuova Zelanda per l’area Pacifico è in continua diminuzione. L’interesse primario di Wellington per questo e altri paesi della regione è d’altra parte per la “sicurezza”, mentre gli immigrati dai vari arcipelaghi del Pacifico continuano a rappresentare la parte più povera ed emarginata della popolazione neozelandese.

La Cina, per contro, è un partner delle Cook da circa due decenni e ha contribuito a vari progetti infrastrutturali e, in particolare, nel settore agricolo. L’accordo siglato settimana scorsa durante una visita del premier Brown in Cina serve a portare le relazioni bilaterali a un livello superiore e stimola la cooperazione in ambito economico, ambientale, infrastrutturale e culturale, oltre che per lo sviluppo del “settore minerario” delle Cook. Una sezione del documento stabilisce inoltre la collaborazione e il sostegno reciproco nelle sedi internazionali, come le Nazioni Unite, e l’impegno contro la proliferazione nucleare nell’area Pacifico.

Il contenuto dell’accordo è stato reso pubblico dal governo delle Cook dopo le reazioni furiose della Nuova Zelanda. Nel testo non ci sono riferimenti a questioni militari o legate alla “sicurezza” e, quindi, le autorità dell’arcipelago non erano tenute a rivelarlo al governo neozelandese prima della firma, come invece sostiene quest’ultimo. Nonostante le condizioni previste dall’intesa siano piuttosto vaghe, l’irritazione di Wellington, così come dietro le quinte di Washington, non è venuta meno.

Il ministro degli Esteri Peters ha dovuto ammettere che le isole Cook hanno il diritto di prendere decisioni in piena autonomia in merito a trattati e accordi internazionali. A livello ufficiale, le critiche del governo neozelandese a quello delle Cook hanno infatti a che fare solo con la mancata consultazione preventiva. La collera di Wellington non dipende però da questi aspetti formali, ma precisamente dal risultato che la Cina ha ottenuto grazie all’accordo appena sottoscritto con l’arcipelago. Un anonimo funzionario del governo della Nuova Zelanda ha confermato questa tesi in una recente intervista al Washington Post, affermando che le preoccupazioni riguardano la possibilità che “l’apparato militare di stato cinese penetri in profondità in un paese che fa parte della sfera di influenza neozelandese”.

In una dichiarazione che rispecchia di fatto la reale attitudine del suo paese, il primo ministro delle Cook ha emesso un comunicato stampa per rassicurare Wellington che l’accordo con Pechino “integra” soltanto e “non sostituisce” il legame con la Nuova Zelanda, né con gli altri paesi con cui l’arcipelago intrattiene rapporti di partnership e collaborazione. Si tratta in sostanza di tenere aperte le possibilità di crescita e sviluppo offerte da qualsiasi soggetto o paese, soprattutto in uno scenario internazionale caratterizzato dall’emergere di poli alternativi.

Per gli USA e i loro fedeli alleati, ciò è tuttavia impensabile e la competizione in aree strategiche delicate come il Pacifico è un “gioco a somma zero”. Da qui le minacce più o meno esplicite e le denunce furiose, amplificate da commentatori e stampa ufficiale, volte a ingigantire il pericolo che accordi e trattati di cooperazione con la Cina implicherebbero. Il premier Brown è stato così accolto al suo ritorno dalla Cina da circa 400 manifestanti che protestavano contro il documento appena firmato e contro l’ipotesi, alimentata da voci diffuse in precedenza, di uno sganciamento dalla Nuova Zelanda. Il governo in carica dovrà inoltre far fronte in parlamento a un voto di sfiducia, che i partiti di opposizione hanno indetto per il prossimo 25 febbraio.

Le pressioni e le manovre di Wellington, verosimilmente in collaborazione con Washington, proseguiranno quindi anche nel prossimo futuro, nel tentativo di far saltare l’accordo appena siglato tra le Cook e la Cina o di rimuovere il governo Brown. L’attitudine neozelandese sembra essere ancora più ferma alla luce della crescente “minaccia” cinese nella regione, come conferma anche un altro incidente diplomatico registrato solo poche settimane fa.

A gennaio, la Nuova Zelanda aveva deciso di sottoporre a revisione tutti i programmi di aiuti destinati all’arcipelago delle Kiribati, dopo che il suo presidente, Taneti Maamau, aveva cancellato un incontro programmato con il ministro degli Esteri Peters. La vicenda va anche in questo caso ricondotta al rafforzamento dei rapporti con la Cina. Nel 2019, Kiribati aveva riconosciuto quello di Pechino come il governo legittimo della Cina, rompendo le relazioni diplomatiche con Taiwan. A seguito della decisione, seguendo uno schema ben consolidato, Pechino aveva inaugurato una serie di progetti di investimento e di aiuti con il piccolo arcipelago dell’oceano Pacifico.

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