La situazione nella parte orientale della Repubblica Democratica del Congo (RDC) è ormai sull’orlo del precipizio in seguito all’ingresso nella città strategica di Goma, capitale della provincia del Kivu settentrionale, della milizia di etnia Tutsi M23 grazie al sostegno delle forze armate del vicino Ruanda. Gli eventi degli ultimi giorni hanno spinto il governo di Kinshasa a rompere le già complicate relazioni diplomatiche con Kigali, facendo temere la possibile esplosione di una nuova guerra su vasta scala in una regione ricchissima di risorse minerarie. Sullo sfondo del conflitto ci sono appunto gli interessi legati all’estrazione e alla commercializzazione, spesso illegale, delle ricchezze del sottosuolo congolese e che si intrecciano alla crescente competizione tra la Cina e l’Occidente.

Dopo giorni di intensi combattimenti, gli uomini dell’M23 hanno conquistato martedì l’aeroporto di Goma e annunciato il controllo dell’intera città. Le forze dell’esercito della RDC sostengono invece di essere presenti ancora in alcune parti della città, ma le notizie riportate dalle agenzie di stampa internazionali raccontano di una realtà in rapido peggioramento per queste ultime. La francese AFP ha citato una fonte locale, secondo la quale più di 1.200 soldati congolesi si sarebbero arresi e sono ora “confinati” presso la base della missione ONU nella RDC (MONUSCO) all’aeroporto di Goma.

Secondo la stessa agenzia, un numero imprecisato di “mercenari” romeni, presumibilmente ingaggiati dal governo di Kinshasa per combattere l’M23, si sarebbero ritirati proprio in Ruanda. La notizia è stata confermata dalle forze armate ruandesi. I romeni arresisi all’M23 nella città ruandese di Gisenyi, al confine con la RDC, sarebbero più di 280. Gli ospedali di Goma sono comunque al collasso, tanto che centinaia di cadaveri erano rimasti per le strade della città e migliaia di feriti sono arrivati nelle varie strutture per cercare assistenza dopo gli scontri a fuoco degli ultimi giorni.

Nonostante questa presenza di mercenari, quella della già ricordata missione ONU e un’altra della Comunità di Sviluppo dell’Africa Meridionale (SADC), le forze armate congolesi continuano a perdere terreno in tutta la provincia del Kivu settentrionale, ormai in larga misura nelle mani dell’M23. A fianco di questa milizia, la principale tra le numerose che operano nell’area, ci sono migliaia di soldati dell’esercito ruandese. Residenti di Goma hanno raccontato in questi giorni di avere osservato svariati militari con divise del Ruanda pattugliare le strade della città. Un rapporto ONU della scorsa estate aveva rivelato che con l’M23 in Congo ci sono fino a 4 mila soldati ruandesi e che Kigali “controlla di fatto” le operazioni della milizia Tutsi.

Il governo di Kinshasa accusa da anni il vicino orientale di alimentare le violenze nel territorio congolese e di utilizzare gruppi armati ribelli per sfruttare le vaste risorse del sottosuolo di questa regione, dall’oro al coltan, dal rame al cobalto. Il presidente ruandese, Paul Kagame, continua a respingere queste accuse e sostiene pubblicamente che il suo paese agisce in difesa della minoranza Tutsi nella RDC dalle Forze Democratiche per la Liberazione del Ruanda (FDLR), organizzazione armata di ribelli ruandesi Hutu riconducibile agli ambienti responsabili del genocidio del 1994.

In realtà, il fattore etnico e il pretesto della guerra al FDLR nascondono un piano di lunga data da parte del Ruanda per mantenere il controllo su una parte del territorio congolese ricco di risorse minerarie. L’M23 e i militari di Kigali contendono la provincia del Kivu settentrionale alle forze armate della RDC, posizionando propri uomini ai vertici delle amministrazioni locali e liquidando brutalmente qualsiasi forma di opposizione. Gli uomini dell’M23 avevano già occupato la città di Goma nel 2012 per essere poi cacciati dall’esercito di Kinshasa e dalle forze ONU l’anno successivo. La milizia era poi tornata a farsi minacciosa verso la fine del 2021 avanzando in varie parti della provincia. Negli scontri di questi anni sono stati uccisi, oltre a migliaia di civili, almeno 17 “peacekeepers” del contingente SADC. Una tregua negoziata lo scorso mese di agosto aveva avuto vita breve e a fine anno erano naufragati anche i colloqui di pace mediati dal governo dell’Angola.

Nei giorni scorsi si è tenuta un’infuocata riunione del Consiglio di Sicurezza ONU, durante la quale il governo congolese ha definito il comportamento del Ruanda di Kagame come una “dichiarazione di guerra”. Guerra che il presidente, Felix Tshisekedi, aveva già minacciato di portare al vicino orientale. Le difficoltà sul fronte militare per la RDC si aggiungono al disastro umanitario causato dai combattimenti. Dall’inizio di gennaio circa 400 mila persone avevano cercato rifugio proprio a Goma, scappando dalle aree rurali del Kivu del nord interessate dalla guerra. Ora, invece, decine di migliaia cercano di lasciare la capitale della provincia in seguito all’arrivo dell’M23. Il numero complessivo dei rifugiati interni alla RDC è stimato in circa 7 milioni.

I leader africani e non solo stanno chiedendo alle parti coinvolte nel conflitto di aprire un negoziato per fermare gli scontri. Un vertice di emergenza della Comunità dell’Africa Orientale era stato convocato mercoledì per discutere della crisi, ma il presidente congolese Tshisekedi ha deciso all’ultimo momento di non prendervi parte. Kagame, da parte sua, ha sempre sostenuto la necessità di una trattativa diretta tra il governo di Kinshasa e i ribelli dell’M23, ipotesi che Tshisekedi però respinge per non legittimare la milizia e, di conseguenza, le mire ruandesi sul suo paese.

Il peggioramento della situazione nel Kivu settentrionale ha inoltre scatenato le proteste di migliaia di congolesi a Kinshasa. I manifestanti hanno attaccato le rappresentanze diplomatiche di Belgio, Francia, Stati Uniti, Kenya, Uganda, Sudafrica e Ruanda, accusando i rispettivi governi di appoggiare le operazioni dell’M23 e di Kigali o di non fare abbastanza per pacificare la regione. Il neo-segretario di Stato americano, Marco Rubio, nel corso di un colloquio telefonico con Kagame avrebbe chiesto l’impegno per un cessate il fuoco e il rispetto dell’integrità territoriale di tutte le parti coinvolte. Altri leader occidentali hanno fatto riferimenti più o meno espliciti alle responsabilità del Ruanda nella vicenda, ma le dichiarazioni di facciata a favore di una soluzione diplomatica nascondono agli occhi dell’opinione pubblica internazionale interessi e manovre tutt’altro che limpide.

È innegabile che il Ruanda benefici da molti anni delle ricchezze congolesi estratte e contrabbandate illegalmente. Questo piccolo paese dell’Africa orientale vanta un robusto export di minerali, pari a 1,5 miliardi di dollari nel solo 2023, con un incremento di oltre quattro volte rispetto al 2017. Varie indagini e rapporti indipendenti hanno evidenziato come una parte consistente di questi beni esportati dal Ruanda provengano dal Congo, causando perdite per quest’ultimo paese di almeno un miliardo di dollari ogni anno. I minerali estratti in particolare dalla provincia del Kivu settentrionale, sotto il controllo dell’M23, vengono “ripuliti” dal Ruanda e venduti in tutto il mondo, in gran parte con la certificazione della sostenibilità della catena di approvvigionamento.

Proprio l’Unione Europea nel febbraio dell’anno scorso aveva sottoscritto con il governo di Kigali un accordo per creare una partnership sul commercio di “materie prime critiche”, attraverso il quale i paesi membri intendono garantirsi le forniture ruandesi di elementi sempre più importanti per i settori industriali d’avanguardia – tantalio, stagno, tungsteno, oro, terre rare – con l’obiettivo dichiarato di ridurre la “dipendenza” in questo ambito dalla Cina. Se l’accordo fa riferimento pomposamente al principio della “sostenibilità” dei processi estrattivi, nonché alla lotta contro i traffici illeciti, le prove delle attività destabilizzanti del Ruanda nella vicina Repubblica Democratica del Congo sono molteplici ed evidenti.

Al di là delle apparenze, il regime di Paul Kagame gode del sostegno dell’Occidente proprio perché rappresenta un contrappeso alla crescente influenza cinese nella RDC. Almeno nell’ultimo decennio, la Cina ha intensificato la cooperazione con Kinshasa, suggellando il rapporto con la ratifica di una “partnership strategica” nel corso della visita del presidente Tshisekedi a Pechino nel maggio del 2023. Progetti cinesi per la costruzione di importanti infrastrutture nel paese africano si sono moltiplicati, soprattutto nel quadro dell’adesione del Congo alla “Nuova Via della Seta” o “Belt and Road Initiative”, avvenuta ufficialmente nel 2021.

La collaborazione riguarda evidentemente anche il settore estrattivo e poggia su un accordo, firmato nel 2008, che prevede uno scambio tra la fornitura di risorse minerarie congolesi e investimenti cinesi in infrastrutture. Inizialmente, l’accordo aveva un valore stimato pari a oltre 80 miliardi di dollari, con un impegno da parte della Cina a investire almeno 6 miliardi in infrastrutture e altri 3 miliardi nello sviluppo del settore minerario. Nel 2023, il presidente Tshisekedi ha avviato una rinegoziazione dell’accordo per meglio bilanciare i benefici che ne derivano per i due paesi, ma quest’ultimo resta comunque un elemento centrale della partnership sino-congolese.

Il sostegno occidentale al Ruanda di Kagame e l’ostilità crescente nei confronti di Tshisekedi è anche il frutto di scelte politiche e diplomatiche inefficaci o del tutto fallimentari fatte negli ultimi decenni nella RDC. Proprio Tshisekedi era stato lanciato nelle elezioni presidenziali del 2018 come candidato “democratico” a loro gradito da Europa e Stati Uniti, al termine di una campagna per far desistere Joseph Kabila dal ricandidarsi. Tshisekedi aveva però gradualmente aperto alla collaborazione cinese, com’è evidente perché molto più proficua in termini materiali per il suo paese, così da perdere la propria credibilità di “democratico” e “riformatore” agli occhi dell’Occidente.

Gli equilibri attuali nella Repubblica Democratica del Congo rischiano dunque di essere stravolti da un conflitto sempre più aspro che si sovrappone appunto alla corsa per l’Africa e le sue risorse tra le grandi potenze, con l’aggravante della rinnovata aggressività americana nei confronti della Cina in seguito al ritorno alla Casa Bianca di Trump. Voci influenti negli USA stanno infatti già sollecitando la nuova amministrazione repubblicana a prendere iniziative più efficaci per contrastare l’espansione cinese nel continente, in un riassestamento strategico che ha al cento proprio la RDC, viste le ingenti risorse di cui dispone. Emblematico di questo approccio è ad esempio un articolo scritto recentemente per il think-tank “neo-con” American Enterprise Institute dall’accademico ed ex consigliere del Pentagono, Michael Rubin.

Quest’ultimo spiega che “il cobalto della RDC sarà per l’economia dei prossimi decenni ciò che è stato il petrolio saudita nella seconda metà del ventesimo secolo”, visto che questo elemento “è essenziale per le batterie agli ioni di litio che alimentano la tecnologia da cui dipende il mondo industrializzato moderno”. Rubin elenca poi altri minerali presenti in abbondanza nel sottosuolo del Congo e ancora da estrare, a suo dire pari a un valore stimato di quasi 24 mila miliardi di dollari. E non si tratta solo della RDC, ma di molti altri paesi africani e risorse, inclusi gas e petrolio, oggi in buona parte accaparrati e ipotecati dalla Cina, con cui gli USA e l’Occidente competono furiosamente. Per riassumere, conclude Rubin, “la sconfitta della Cina in Africa inizia con lo strappare la Repubblica Democratica del Congo” dal controllo di Pechino.

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