Secondo svariate fonti ufficiali delle parti coinvolte nelle trattative in corso, una tregua “totale” sarebbe stata raggiunta tra Hamas e il regime di Netanyahu per fermare il genocidio palestinese in corso da oltre quindici mesi a Gaza. A dare l’impulso decisivo sembra essere stato l’intervento dell’amministrazione americana entrante di Donald Trump, ma, se il cessate il fuoco dovesse alla fine andare realmente in porto, determinanti potrebbero risultare sia le sempre più complicate condizioni sul campo per le forze di occupazione israeliane sia i cambiamenti politici e degli equilibri strategici avvenuti in Medio Oriente nelle ultime settimane. L’accordo deve comunque ancora essere approvato in forma ufficiale dal gabinetto israeliano, all’interno del quale restano forti resistenze, dopo che verranno definiti gli ultimi dettagli del documento in discussione.

La tregua dovrebbe entrare in vigore domenica prossima e prevede tre fasi distinte. La prima, della durata prevista di sei settimane, prevede un limitato scambio di prigionieri, un parziale ritiro delle truppe israeliane dai centri abitati di Gaza e un afflusso massiccio di aiuti umanitari nella striscia, con un massimo di 600 camion al giorno. Israele consentirà ai civili di tornare nelle loro case nel nord di Gaza, dove la crisi umanitaria ha raggiunto livelli critici, e aprirà il valico di Rafah con l’Egitto dopo una settimana dall’inizio della tregua.

Nella stessa fase, le forze israeliane ridurranno la loro presenza nel Corridoio di Filadelfia, al confine con l’Egitto, per completare il ritiro entro 50 giorni. Tuttavia, Israele ha evitato di fornire garanzie scritte contro la ripresa delle ostilità una volta conclusa questa prima fase, nonostante gli impegni verbali dei mediatori a proseguire le negoziazioni per le fasi successive.

La seconda fase, ancora in discussione, dovrebbe portare alla liberazione di tutti i prigionieri israeliani ancora vivi, prevalentemente soldati, in cambio di un rilascio di detenuti palestinesi nelle carceri israeliane. Questa fase è condizionata a un ritiro totale di Israele da Gaza, un nodo controverso per il governo di Netanyahu, caratterizzato dalla forte influenza di esponenti dell’ultradestra contraria a concessioni nei confronti di Hamas.

Infine, la terza fase, dai contorni più incerti, prevede la restituzione dei corpi degli ultimi prigionieri in cambio di un piano di ricostruzione di Gaza, con durata compresa tra tre e cinque anni e sotto supervisione internazionale. La governance della striscia nel post-conflitto resta un tema irrisolto: gli Stati Uniti spingono per un ruolo centrale dell’Autorità Palestinese, supportata da partner internazionali e forze arabe, ma qualsiasi soluzione richiede l’appoggio di stati come l’Arabia Saudita, vincolato con ogni probabilità alla prospettiva della creazione di uno stato palestinese.

Le trattative si sono intensificate negli ultimi quattro giorni, secondo un alto funzionario statunitense coinvolto nei negoziati e citato dalla Associated Press. Il processo, caratterizzato da incontri frenetici a Doha, ha visto la collaborazione tra l’inviato mediorientale di Trump, Steve Witkoff, e il consigliere di Biden per la regione, Brett McGurk, con la mediazione anche di Qatar ed Egitto. Secondo la ricostruzione americana, mercoledì mattina, a ridosso della chiusura dell’intesa, Hamas avrebbe avanzato una serie di richieste dell’ultimo minuto che potevano far deragliare i colloqui, ma, secondo quanto riferito dallo stesso funzionario USA, gli interlocutori occidentali avrebbero mantenuto una posizione ferma, costringendo Hamas ad accettare i termini proposti.

Negli ultimi giorni e con la notizia di un possibile accordo imminente che rimbalzava in continuazione sui media di tutto il mondo, Israele ha intensificato bombardamenti e violenze a Gaza, facendo salire ulteriormente un bilancio di morte e distruzione già sconvolgente. Se anche la tregua dovesse durare, le condizioni umane e materiali della striscia e dei suoi abitanti sono a dir poco atroci, così da rendere lunghissimo ed estremamente complicato un eventuale processo di ricostruzione.

Secondo Martin Griffiths, ex capo dell’assistenza umanitaria delle Nazioni Unite, le divergenze tra Israele e Hamas rendono difficile prevedere una reale conciliazione degli obiettivi delle due parti nell’accordo appena raggiunto. Intervistato da Al Jazeera, Griffiths ha sottolineato che per Israele l’intesa è finalizzata principalmente al rilascio degli ostaggi detenuti a Gaza, mentre per Hamas rappresenta un’occasione per ottenere un cessate il fuoco permanente. “Non si tratta degli stessi obiettivi”, ha dichiarato Griffiths, evidenziando come la natura divergente delle priorità renda intrinsecamente fragile la possibilità di un’evoluzione dell’accordo verso le fasi successive. Inoltre, ha aggiunto che “esiste una concreta possibilità che una delle due parti non intenda proseguire verso la seconda o la terza fase”.

Griffiths ha inoltre evidenziato che, pur riconoscendo l’importanza dell’intesa, non vi è alcuna chiarezza su questioni fondamentali come la governance dei territori palestinesi o il ruolo futuro di Hamas. “Gli obiettivi di guerra di Israele non sono cambiati radicalmente; sentiamo ancora che Israele si riserva il diritto di riattaccare,” ha affermato. Un’altra incognita riguarda il futuro dell’UNRWA, l’agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati palestinesi, che Israele potrebbe bandire entro la fine di gennaio, mettendo a rischio la consegna degli aiuti umanitari a Gaza. “Se vuoi fornire aiuti umanitari su larga scala… hai bisogno dell’UNRWA,” ha concluso Griffiths, sottolineando l’urgenza di risolvere queste problematiche per evitare ulteriori crisi umanitarie.

Ci sono pochi dubbi sul fatto che il crescente numero di morti tra i militari delle forze di occupazione, assieme alle diserzioni e alle richieste sempre più forti dei familiari degli “ostaggi” di Hamas abbiano alla fine pesato sulle scelte di Netanyahu. L’intervento di Trump, che tornerà alla Casa Bianca il 20 gennaio prossimo, è stato un altro fattore, anche se le sue inclinazioni filo-israeliane lasciano più di un dubbio sull’impegno che l’amministrazione entrante a Washington metterà nel prossimo futuro per fare in modo che il cessate il fuoco si trasformi in una pace duratura.

È anche probabile che, a fronte del disgusto internazionale per i livelli di criminalità dello stato ebraico e dell’impossibilità di annientare la resistenza palestinese, Netanyahu abbia valutato come elementi soddisfacenti per approvare una tregua gli eventi accaduti recentemente in Siria e in Libano. Nel primo caso, la caduta di Assad ha favorito Israele sia eliminando uno dei principali sostenitori dell’Asse anti-sionista sia consentendo a Israele di occupare – come sempre senza nessun fondamento legale – parte del territorio siriano.

In Libano, invece, dopo la tregua con Hezbollah, peraltro ripetutamente violata da Israele, è stato eletto un nuovo presidente, il comandante delle forze armate Joseph Aoun, e nominato a primo ministro il presidente della Corte Internazionale di Giustizia Nawaf Salam, entrambi allineati agli interessi occidentali. Un’evoluzione, quella del quadro politico libanese, che sembra favorire quindi anche Israele, anche se in prospettiva futura gli equilibri interni al paese e la posizione di Hezbollah saranno tutti da verificare.

In attesa di appurare se le sofferenze indicibili della popolazione palestinese inizieranno a essere alleviate, le macerie e le stragi di Gaza resteranno per sempre una macchia indelebile su un regime e un progetto genocida, così come sui suoi sponsor e alleati soprattutto in Occidente, complici in tutto e per tutto di uno dei crimini più gravi degli ultimi decenni.

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