Le prime nomine ufficiali e le voci sui candidati a occupare alcune delle posizioni più importanti nel prossimo gabinetto di Donald Trump sembrano smentire categoricamente le ipotesi di un imminente stravolgimento delle priorità internazionali degli Stati Uniti. La realtà potrebbe alla fine risultare più complessa di quanto appaia, ma i nomi già confermati e quelli circolati finora sui media americani difficilmente fanno pensare a quel futuro di pace prospettato in campagna elettorale dall’appena rieletto presidente repubblicano. L’unica eccezione potrebbe essere – forse – la guerra in Ucraina e la stabilizzazione dei rapporti con la Russia, ma anche in questo caso sarà fondamentale capire a chi saranno affidate le chiavi della diplomazia USA e se esisterà la volontà e il coraggio di prendere atto degli equilibri venutisi a creare sul campo.

Il criterio con cui Trump e il suo staff hanno fatto le prime scelte risponde in apparenza a un criterio abbastanza preciso: la fedeltà alla causa MAGA e, allo stesso tempo, un discostamento non eccessivo dalle posizioni “neo-con” a cui si rifà tuttora la maggioranza della leadership repubblicana e degli ambienti del business e della “intellighenzia” conservatrice americana. Anche se è decisamente presto per emettere un giudizio definitivo, le prime indicazioni suggeriscono che Trump, dopo il netto successo di settimana scorsa su Kamala Harris, non intenda inimicarsi precocemente un “Deep State” già scettico nei suoi confronti. L’obiettivo è piuttosto di agire in maniera cauta per un mandato con meno scosse rispetto al primo, salvo poi verificare i margini di manovra in corso d’opera.

Per quanti si erano sbilanciati nel sostenere Trump sulla base delle sue promesse di ripulire Washington e di mettere fine allo stato di guerra perenne, si è in presenza di un brusco e immediato risveglio, ma questa speranza è stata in realtà illusoria fin dall’inizio. È chiaro che ci saranno molte sfumature nella gestione della politica estera trumpiana e che per alcuni versi le differenze con l’amministrazione Biden risulteranno notevoli. La formulazione delle priorità strategiche dell’imperialismo USA è tuttavia una prerogativa che risiede in larga misura al di fuori della Casa Bianca e su di esse c’è una sostanziale unità di vedute tra coloro che muovono le leve del potere.

Ciò che appare invece già da ora indiscutibile, e anche in questo caso non si può parlare di sorpresa, è che la nascente seconda amministrazione Trump avrà ancora una volta una totale dedizione alla causa sionista. Le prime tre nomine – effettive o da confermare – per incarichi che avranno a che fare con la politica estera sono infatti di altrettanti politici interamente sottomessi agli interessi di Israele e che nemmeno il genocidio in corso a Gaza è riuscito minimamente a smuovere. Com’era prevedibile, tutti e tre sono inoltre “falchi” convinti riguardo ai rapporti con l’Iran.

Il ruolo cruciale di Consigliere per la Sicurezza Nazionale sarà ricoperto dal deputato repubblicano della Florida, Mike Waltz. Ufficiale dell’esercito ed ex “berretto verde” con precedenti in Afghanistan e altrove, Waltz ha trascorso gli ultimi sei anni al Congresso promuovendo politiche ancora più aggressive di quelle attuate dalle amministrazioni di turno su Cina, Iran e Russia. È inoltre un accesso sostenitore di Israele e tutti i media americani stanno ricordando in questi giorni una sua recente intervista a The Economist dove affermava che la futura amministrazione Trump avrebbe dovuto dare la possibilità al regime di Netanyahu di “finire il lavoro” nei confronti di Hamas a Gaza.

Sull’Iran, Mike Waltz auspica un ritorno alla politica della “massima pressione”, in riferimento alle iniziative ultra-provocatorie di Trump nel primo mandato, quando uscì unilateralmente dall’accordo sul nucleare (JCPOA) per poi imporre una serie di pesanti sanzioni alla Repubblica Islamica. Nella già citata intervista a The Economist, Waltz consigliava a Trump di mettere sul tavolo una “opzione militare credibile” per fermare la corsa al nucleare dell’Iran.

Se si considera la posizione generalmente attribuita a Trump sulla crisi russo-ucraina, appaiono preoccupanti anche i precedenti di Waltz su tale questione. Nelle prime fasi del conflitto aveva sposato in pieno la crociata anti-russa, arrivando anche ad appoggiare l’invio di militari americani a Kiev sottoforma di “consiglieri”. Moto critico era stato anzi nei confronti dell’amministrazione Biden per non essere sufficientemente aggressiva nel sostenere l’Ucraina e contrastare l’invasione russa. Più di un anno dopo l’inizio del conflitto, Waltz avrebbe però iniziato a manifestare qualche dubbio sulla sostenibilità delle operazioni militari, ma più di recente ha espresso giudizi su una possibile soluzione che andranno valutati con attenzione per comprendere se risulteranno allineati a quelli del presidente eletto.

Per Waltz, la strada verso la pace deve passare cioè per una nuova escalation fatta di pressioni, sanzioni e un’ulteriore intensificazione dell’appoggio militare a Kiev, incluso il via libera all’uso di missili a lungo raggio per colpire il territorio russo. Si tratta in definitiva della riproposizione della strategia adottata da USA ed Europa dal febbraio 2022 e che ha portato al disastro dell’avventura ucraina. Se i piani di pace di Trump, non ancora del tutto chiari, dovessero riflettere le posizioni del suo Consigliere per la Sicurezza Nazionale, la de-escalation in Ucraina resterà un miraggio.

Un’altra nomina ufficiale è quella dell’ambasciatrice americana alle Nazioni Unite. La scelta è ricaduta su un’altra fedelissima di Trump, la deputata dello stato di New York, Elise Stefanik. La 40enne repubblicana ha un impeccabile curriculum “neo-con”, con esperienze, prima dell’ingresso alla Camera dei Rappresentanti, nei “think tank” Foundation for Defense of Democracies e Foreign Policy Initiative, quest’ultimo fondato dai “falchi” della politica estera USA, Bill Kristol e Robert Kagan.

La Stefanik è anch’essa in sostanza uno strumento nelle mani della lobby sionista e nei mesi scorsi si era distinta per svariati interventi pubblici nei quali accostava le proteste dilaganti nei campus universitari americani contro il genocidio palestinese all’antisemitismo. Inoltre, la futura ambasciatrice all’ONU è un’oppositrice della prima ora dell’accordo sul nucleare iraniano fatto saltare nel 2018 da Trump e, come Mike Waltz, spinge per un ritorno all’esercizio della “massima pressione” per piegare la Repubblica Islamica.

Tipicamente, il ruolo che ricoprirà Elise Stefanik non prevede decisioni autonome relative agli indirizzi di politica estera dell’amministrazione americana che serve, ma è un incarico sottoposto al dipartimento di Stato, di cui esegue le direttive. Una personalità con i suoi orientamenti ideologici anticipa però l’attitudine nuovamente combattiva che la prossima amministrazione Trump assumerà verso la comunità internazionale, soprattutto sulle questioni che riguardano Israele.

Prima che i media americani riportassero le notizie delle prime nomine decise da Trump, c’era stata una certa soddisfazione sui social media e negli ambienti dell’informazione alternativa per la decisione del presidente eletto di escludere dalla nuova amministrazione personalità “neo-con” pericolose come Nikki Haley e, soprattutto, l’ex segretario di Stato ed ex direttore della CIA, Mike Pompeo. Anche se Haley e Pompeo resteranno fuori, i primi segnali che arrivano dalla selezione in corso non fanno presagire nulla di buono.

In particolare, se dovesse essere confermata la scelta del senatore della Florida, Marco Rubio, alla carica di segretario di Stato. La notizia è stata diffusa nella serata di lunedì, singolarmente poco dopo che alcuni siti avevano anticipato la possibile nomina alla guida della diplomazia USA dell’ex ambasciatore in Germania, Richard Grenell. Irriducibile sostenitore di Trump, quest’ultimo si era detto nel recente passato possibilista sull’ipotesi che l’Ucraina cedesse parte del suo territorio alla Russia in cambio della fine della guerra. Una posizione universalmente accostata al desiderio di arrivare a una tregua in tempi rapidi su questo fronte.

La designazione di Rubio non è stata ancora confermata dall’entourage di Trump, ma, se così fosse, sarebbe comunque da stabilire quali aspettative ci siano nei suoi confronti da parte del neo-presidente. Se Rubio è facilmente ascrivibile alla categoria dei “falchi” in materia di esteri, il senatore di origine cubana è prima di tutto un opportunista senza nessuna statura morale né particolari abilità o competenze. Per qualche commentatore, perciò, potrebbe alla fine eseguire semplicemente gli ordini della Casa Bianca, tanto più che in tempi recenti ha espresso qualche dubbio sull’opportunità di prolungare la guerra in Ucraina.

Una manciata di altre nomine per posizioni di spicco nella prossima amministrazione sono state infine già ufficializzate. Una è quella di Stephen Miller, definito da un articolo del sito Politico.com come “l’architetto delle separazioni delle famiglie di immigrati [durante la precedente amministrazione Trump]” e promotore di “politiche anti-migratorie razziste e xenofobe”. Miller occupava già una posizione influente alla Casa Bianca nella prima presidenza Trump ed ha legami documentati con ambienti del suprematismo bianco neo-fascista. La sua conferma indica quindi la fermezza di Trump nell’implementare almeno alcune delle misure estreme promesse in campagna elettorale contro l’immigrazione illegale.

Sul lato pratico, a coordinare le iniziative anti-migranti toccherà all’ex direttore dell’agenzia per l’Immigrazione e le Dogane (ICE), Tom Homan, nominato “zar del confine” da Trump. Homan dovrà in sostanza attuare la repressione in fase di studio per far fronte a un problema ingigantito a dismisura dall’estrema destra americana in questi ultimi anni. Le deportazioni di massa minacciate da Trump saranno comunque difficili da portare a termine per ragioni legali, economiche e logistiche.

In serio pericolo potrebbero essere però in tempi brevi almeno quegli immigrati – stimati in circa 1,3 milioni – che hanno già ricevuto un ordine di espulsione ma sono tuttora in territorio americano, assieme ad altre centinaia di migliaia che godono di “status protetto temporaneo” perché provenienti da paesi a rischio, soprattutto dell’America Latina. Entrambi i provvedimenti potrebbero in teoria essere adottati in tempi brevi, visto che non richiedono una legge del Congresso ma un semplice decreto firmato dal presidente.

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