La vicenda del gasdotto che dovrebbe collegare l’Iran e il Pakistan è un esempio di come le sanzioni unilaterali imposte dagli Stati Uniti continuino a frenare, senza nessuna ragione logica, lo sviluppo di paesi sovrani, siano essi nemici o alleati di Washington. Dopo oltre un decennio di intese e rinvii, il governo della Repubblica Islamica è stato costretto nei giorni scorsi a recapitare un’ingiunzione finale alle autorità pakistane, avvertendole che, a breve, saranno trascinate davanti alla Corte Internazionale di Arbitrato di Parigi per il mancato rispetto degli impegni presi. L’inattività di Islamabad nei confronti di un progetto così strategico dipende interamente dalla ripetuta e irriducibile opposizione americana.

L’Iran ha completato da tempo la sezione dell’infrastruttura che sorge sul proprio territorio e che copre circa 1.100 chilometri dal mega-giacimento “South Pars” fino alla provincia di confine del Sistan-Belucistan. La parte pakistana mai costruita dovrebbe essere di 780 chilometri passando per le province meridionali di Belucistan e Sindh. Fin dall’inizio, gli Stati Uniti hanno fatto sapere al Pakistan che la finalizzazione del gasdotto avrebbe fatto scattare l’imposizione di misure punitive, perché avrebbe violato le sanzioni americane contro la Repubblica Islamica.

 

L’impianto era stato lanciato nel 2008 come gasdotto India-Pakistan-Iran, ma Nuova Delhi aveva deciso in seguito di defilarsi sempre per il timore di incorrere in violazioni delle sanzioni USA. Il Pakistan era rimasto invece nell’accordo con l’obiettivo di convincere l’alleato americano a dare il via libera al progetto o nell’attesa di un miglioramento del clima geopolitico in Medio Oriente e in Asia centrale. Le cose non sono tuttavia cambiate.

Nel settembre del 2019 le due compagnie statali del gas di Iran e Pakistan avevano sottoscritto un contratto modificato che impegnava Islamabad a costruire finalmente la propria parte di gasdotto entro marzo 2024. Scaduto anche questo termine, Teheran aveva accordato una proroga di altri 180 giorni, fino cioè alla fine di settembre. Il governo iraniano si è visto così obbligato a muoversi, poiché in assenza di una citazione presso il tribunale arbitrario entro settembre perderebbe la facoltà di passare alle vie legali nei confronti del Pakistan.

Il contratto tra i due paesi era stato stilato secondo il diritto francese ed è per questa ragione che la disputa verrà sottoposta all’attenzione della Corte di Arbitrato di Parigi. Quest’ultima non riconosce le sanzioni imposte dagli Stati Uniti all’Iran e anche per questa ragione il Pakistan rischia seriamente di dover risarcire una somma enorme alla Repubblica Islamica, fino addirittura a 18 miliardi di dollari. La scelta è quindi tra pagare una multa salatissima e rischiare di incorrere in sanzioni americane altrettanto pesanti, senza parlare dei contraccolpi sul piano economico, militare e strategico di una possibile incrinatura nelle relazioni bilaterali con Washington.

Nei mesi scorsi era sembrato che il Pakistan si fosse alla fine deciso a procedere con la costruzione del gasdotto. I lavori per una prima sezione di 80 chilometri, dal confine iraniano al porto di Gwadar sul Mare Arabico, erano stati programmati per essere poi subito sospesi a causa delle solite minacce USA. Dopo le controverse elezioni di febbraio si era poi diffusa qualche speranza che gli orientamenti filo-occidentali del nuovo governo avrebbero potuto convincere Washington a garantire una deroga alle sanzioni anti-iraniane.

Al contrario, l’amministrazione Biden aveva confermato la propria posizione, agitando sanzioni contro qualsiasi ente o persona coinvolta nei lavori del gasdotto. Infatti, in un’udienza al Congresso nel marzo scorso, l’assistente al segretario di Stato per l’Asia centrale e meridionale, Donald Lu, aveva ribadito che l’impegno del suo governo era di “impedire la realizzazione del gasdotto”. Più recentemente, a inizio settembre, è stato invece il portavoce del dipartimento di Stato, Matthew Miller, a ricordare la fermezza americana nel far rispettare le sanzioni contro l’Iran.

Miller ha aggiunto che la priorità degli Stati Uniti è comunque di “aiutare il Pakistan a risolvere le sue carenze energetiche”. In che modo ciò possa essere fatto boicottando progetti, come il gasdotto Iran-Pakistan, che contribuiscono enormemente alla sicurezza energetica di un paese cronicamente in difficoltà in questo ambito, non è dato sapere. Washington non ha in realtà alcuno scrupolo per questioni vitali come appunto quella della sicurezza energetica dei suoi alleati, se non nella misura in cui quest’ultima si sovrapponga agli interessi strategici americani. A prevalere per gli USA è in questo caso l’isolamento della Repubblica Islamica, anche a costo di penalizzare paesi considerati come partner o alleati.

Alcuni commentatori hanno evidenziato come i rapporti tra Iran e Pakistan in questi mesi siano migliorati sensibilmente, nonostante una breve crisi militare a inizio anno. Questo fattore potrebbe perciò spingere le due parti a trovare una qualche soluzione relativamente indolore, come un accordo su una penale meno pesante a carico di Islamabad per il mancato rispetto degli impegni contrattuali. D’altra parte, per l’Iran non ci sono alternative all’arbitrato, visto che si ritrova con un impianto costruito da tempo, senza prospettive immediate di un completamento dei lavori da parte pakistana e con tempi brevi per avviare un’azione legale che porti a un possibile risarcimento.

Resta anche l’ipotesi di una nuova proroga, ma è difficile credere che i due governi non l’abbiano esplorata prima che Teheran decidesse di riferire la questione alla Corte di Arbitrato. Secondo alcuni, tuttavia, potrebbero esserci spiragli in questo senso alla luce degli orientamenti del nuovo presidente iraniano, Masoud Pezeshkian, in teoria meglio disposto verso l’Occidente. Le varie parti potrebbero in altre parole attendere un possibile allentamento delle tensioni tra USA e Iran, soprattutto se Kamala Harris dovesse succedere a Biden il prossimo gennaio, per poi rilanciare il gasdotto in un clima internazionale più disteso.

Anche altri fattori vanno valutati riguardo al Pakistan, come gli effetti delle sirene del multipolarismo che, in varia misura, richiamano tutti gli ambienti di potere di questo paese. La progressiva integrazione pakistana nei progetti di sviluppo globale alternativi all’Occidente, a cominciare dall’ultra ambizioso CPEC con la Cina, potrebbe in prospettiva determinare un allentamento della dipendenza dagli Stati Uniti. Un processo che potrebbe essere accelerato dall’eventuale riabilitazione dell’ex primo ministro Imran Khan, attualmente in carcere per una serie di condanne politiche e in sostanza collegate alle aperture verso Russia e multipolarismo nella fase finale del suo mandato, interrotto prematuramente nella primavera del 2022.

Per il momento, il quadro internazionale resta complicato, soprattutto dal genocidio in corso a Gaza e dal rischio di escalation militare tra Iran e Israele. Il Pakistan, perciò, deve continuare a fare i conti con una perenne crisi energetica e, a causa dell’alleato americano, rinunciare a un progetto già concordato che gli garantirebbe ogni giorno oltre 21 milioni di metri cubi di gas proveniente dal vicino Iran. Un progetto, quello del gasdotto Iran-Pakistan, che oltretutto resta ad oggi l’unico canale di fornitura praticabile con questo sistema, essendo altre ipotesi, come ad esempio il gasdotto Turkmenistan-Afghanistan-Pakistan-India (TAPI) promosso proprio da Washington, ormai morte e sepolte.

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