Le maglie dell’indagine sull’assalto al Congresso di Washington del 6 gennaio scorso si stanno stringendo sempre più attorno alla cerchia di consiglieri e collaboratori dell’ex presidente Trump, coinvolti nel tentato colpo di stato che avrebbe dovuto impedire la ratifica del successo elettorale di Joe Biden. La speciale commissione della Camera dei Rappresentanti sugli eventi di “Capitol Hill” ha infatti emesso nei giorni scorsi 16 citazioni nei confronti di uomini con incarichi importanti nella precedente amministrazione. Tutti i convocati, salvo rifiuti o ritardi per via di possibili cause legali, saranno chiamati a testimoniare davanti alla stessa commissione nelle prossime settimane, nonché a consegnare documenti rilevanti ai fini dell’indagine in corso.

I nuovi mandati di comparizione o “subpoena” sono stati annunciati tra lunedì e martedì dal presidente della commissione, il deputato democratico del Mississippi Bennie Thompson. Nell’atto ufficiale scritto da quest’ultimo si leggono gli elementi sui quali i membri della commissione intendono far luce con i più recenti provvedimenti. In particolare, l’attenzione si sta concentrando sulla campagna di disinformazione che aveva preceduto i fatti del 6 gennaio, volta ad alimentare la tesi dei brogli elettorali nelle presidenziali del novembre precedente, e sui piani concreti che l’entourage di Trump avrebbe studiato e implementato per fermare il conteggio dei voti dei cosiddetti “collegi elettorali” inviati dai singoli stati al Congresso.

Ognuna delle personalità di primo piano coinvolte nell’indagine sembra avere avuto un ruolo specifico nel progetto che avrebbe dovuto garantire illegalmente la permanenza di Trump alla Casa Bianca nonostante la sconfitta alle urne. Soprattutto il docente di diritto ed ex consigliere di Trump, John Eastman, è oggetto di grande intereresse, in quanto autore di un memorandum che avrebbe dovuto fornire il quadro pseudo-legale per ribaltare l’esito del voto. Eastman sosteneva in sostanza che il vice-presidente, Mike Pence, aveva la facoltà di rifiutare la certificazione della vittoria di Biden, cosa invece non prevista dalla Costituzione americana.

Lo stesso Eastman aveva tenuto un discorso durante il comizio di Trump di fronte alla Casa Bianca nelle ore che avevano preceduto l’assalto all’edificio che ospita il Congresso. Non solo, Eastman aveva preso parte alle riunioni organizzate il giorno precedente presso l’hotel Willard Intercontinental di Washington, dove era stato creato un vero e proprio “centro di comando” per pianificare i dettagli dell’operazione golpista.

Le discussioni andate in scena e le iniziative decise all’hotel Willard sono al centro dell’interesse della commissione di indagine e altri ex collaboratori di Trump sono stati appunto convocati a questo scopo, così come per chiarire i loro legami con i partecipanti all’assalto del 6 gennaio. Uno dei nomi di maggiore rilievo è quello di Jason Miller, alle dipendenze dal giugno 2020 dell’organizzazione per la campagna elettorale di Trump. Miller, secondo le conclusioni preliminari della commissione, aveva tenuto i contatti con Trump nella giornata del 6 gennaio, discutendo con ogni probabilità delle azioni da attuare in base a quanto stabilito il giorno precedente all’hotel Willard.

Qui erano presenti, tra gli altri, anche Rudy Giuliani, avvocato personale di Trump, e il neo-fascista Stephen Bannon, ex consigliere del presidente. Entrambi questi ultimi erano già stati oggetto di mandati emessi dalla commissione e tuttora oggetto di cause legali visto il loro rifiuto a comparire. Un altro ancora, coinvolto invece ufficialmente questa settimana nell’indagine, è l’ex consigliere per la Sicurezza Nazionale di Trump, Michael Flynn.

L’ex generale dell’intelligence militare, uscito precocemente dall’amministrazione Trump in seguito a una polemica legata al “Russiagate”, aveva svolto un ruolo di spicco nell’operazione di propaganda pianificata dalla Casa Bianca dopo il voto di novembre. Il 18 dicembre 2020 aveva inoltre partecipato a una riunione nello Studio Ovale durante la quale era stata valutata l’ipotesi di sequestrare le macchine per votare utilizzate nei seggi, assieme alla possibilità di dichiarare un’emergenza nazionale a causa dei presunti brogli e assegnare di conseguenza poteri speciali al presidente.

Il coinvolgimento dell’ex generale nei piani di Trump riguarda anche il fratello, l’ex vice comandante dello Stato Maggiore dell’Esercito Charles Flynn, il quale rispose il 6 gennaio a una drammatica telefonata del comandante della Guardia Nazione di Washington che richiedeva rinforzi immediati per fermare l’assalto a “Capitol Hill”. Il più giovane dei fratelli Flynn, assieme a un altro generale, ritardarono l’invio delle truppe a loro disposizione di ben tre ore e 19 minuti, evidentemente dopo essersi consultati sul da farsi con la Casa Bianca.

Gli altri nomi importanti oggetto di una “subpoena” della commissione di indagine includono la ex portavoce della Casa Bianca, Kayleigh McEnany, l’ex consigliere vicino agli ambienti neo-fascisti, Stephen Miller, l’ex capo della Polizia di New York, Bernard Kerik, l’ex consigliere di Pence per la Sicurezza Nazionale, generale Keith Kellogg, l’ex direttore del personale della Casa Bianca, John McEntee, il direttore della campagna elettorale 2020, William Stepien, e l’ex assistente personale del presidente, Nicholas Luna.

Nelle parole del numero uno della commissione di indagine della Camera, deputato Bennie Thompson, l’obiettivo delle convocazioni finora ordinate sarebbe di “conoscere ogni dettaglio di ciò che accadde alla Casa Bianca il 6 gennaio e nei giorni precedenti”. Thompson spiega inoltre che sarà necessario “sapere esattamente che ruolo hanno avuto l’ex presidente i suoi consiglieri nel tentativo di fermare il conteggio dei ‘voti elettorali’ e se [questi ultimi] erano in contatto con chiunque, al di fuori della Casa Bianca, abbia partecipato ai piani per ribaltare il risultato delle elezioni”.

Come accennato in precedenza, alcuni protagonisti dell’ex amministrazione repubblicana hanno già respinto gli ordini di comparizione emessi dalla commissione di indagine nelle scorse settimane. Oltre a Bannon e all’ex capo di gabinetto del presidente, Mark Meadows, questa tattica difensiva è stata scelta anche dallo stesso Trump. Alla richiesta di presentare tutte le comunicazioni del suo ufficio nei giorni finali del mandato, Trump aveva risposto con una causa legale per cercare di tenere segreti i documenti in questione.

Martedì, però, un giudice federale del distretto della capitale ha respinto l’istanza dei legali di Trump, smontando la tesi del “privilegio presidenziale”, soprattutto perché questa facoltà, dalle fondamenta legali quanto meno dubbie, spetta se mai al presidente in carica. Biden, da parte sua, ha invece già dato il via libera alla pubblicazione dei documenti richiesti dalla commissione. Non è comunque da escludere che la vicenda legale sulle comunicazioni tra Trump e i suoi consiglieri possa finire alla Corte Suprema, ostacolando o rallentando significativamente l’indagine sui fatti del 6 gennaio. Lo stesso discorso vale per altri protagonisti del fallito golpe, dal momento che in molti sceglieranno di non collaborare all’indagine, innescando anche in questo caso lunghe cause legali.

Tutto ciò rende decisamente incerte le prospettive dell’indagine in corso. Prospettive complicate peraltro anche da forti dubbi circa la volontà politica del Partito Democratico di fare realmente chiarezza sulle responsabilità di quanto accaduto il 6 gennaio scorso. Nonostante l’ostentazione di inflessibilità della commissione di indagine, infatti, le misure concrete adottate finora mostrano piuttosto una determinazione molto meno ferma, come dimostra ad esempio lo scarso numero di udienze pubbliche convocate finora.

In linea con le tendenze all’insabbiamento di praticamente tutte le commissioni d’inchiesta sugli scandali del passato negli Stati Uniti, l’obiettivo primario anche di quella in corso sembra essere di evitare che emerga in maniera approfondita il coinvolgimento nel tentato golpe di elementi collegati ai grandi interessi economico-finanziari americani e del Partito Repubblicano nel suo insieme. Andare realmente a fondo di questi aspetti comporterebbe infatti la destabilizzazione dell’intero sistema politico americano, cosa che i democratici temono molto di più della minaccia di un nuovo rigurgito autoritario che incombe sugli Stati Uniti a meno di dodici mesi dall’invasione dell’edificio del Congresso da parte di un’orda di militanti di estrema destra.

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