La prestigiosa università privata di Harvard è stata questa settimana la prima istituzione accademica americana a rifiutarsi di cedere alle “richieste” dell’amministrazione Trump di sottoporre di fatto al controllo governativo le attività didattiche e di reprimere ogni forma di opposizione politica o manifestazione di protesta nel campus. La Casa Bianca ha per tutta risposta congelato i consistenti fondi federali di cui gode l’università con sede a Cambridge, nel Massachusetts. La posizione dei vertici di quest’ultima non appare però del tutto irremovibile, visti i precedenti degli ultimi mesi e alla luce del fatto che tra le dichiarazioni ufficiali di questi giorni si intravede una certa disponibilità al compromesso. Lo scontro con Harvard potrebbe in ogni caso motivare altri istituti americani a resistere ai diktat di Trump, nel quadro di uno scontro che vede in gioco principi democratici fondamentali, a cominciare dalla libertà di espressione, sempre più sotto attacco da parte dell’amministrazione repubblicana.

Venerdì scorso, il dipartimento dell’Educazione degli Stati Uniti, assieme ad altri ministeri e agenzie governative, aveva indirizzato all’università di Harvard una comunicazione ufficiale con un elenco di “riforme” che avrebbe dovuto implementare, causa il mancato rispetto “negli ultimi anni delle condizioni intellettuali e relative ai diritti civili che giustificano investimenti federali”. Tra le condizioni imposte per continuare a beneficiare dei fondi pubblici c’era il “ridimensionamento del potere” esercitato da docenti e amministratori “dediti più all’attivismo che all’insegnamento”.

Un altro punto chiave era la modifica delle procedure di ammissione per “impedire l’iscrizione di studenti stranieri ostili ai valori americani”, inclusi i “sostenitori di terrorismo e antisemitismo”. In quest’ultimo caso, il riferimento chiarissimo è a coloro che si oppongono, esprimendosi pubblicamente, al genocidio palestinese in corso a Gaza e al regime sionista israeliano.

Alcune delle altre imposizioni trumpiane prevedevano lo stop all’implementazione di tutti i programmi dedicati a “diversità, equità e inclusione” (DEI) e l’obbligo di considerare la “diversità di opinione” nei processi di reclutamento del personale accademico e di ammissione degli studenti. Per garanzia di “diversità” si intende evidentemente l’introduzione forzata nei programmi accademici di teorie, dottrine e idee coerenti con le ideologie di estrema destra a cui si ispira l’attuale amministrazione. Nel concreto si tratterebbe di aprire anche gli istituti universitari più autorevoli a teorie ultra-reazionarie, oscurantiste e anti-scientifiche.

Ad ogni modo, il presidente di Harvard, Alan Garber, lunedì ha fatto sapere che la sua università non intende accettare le condizioni della Casa Bianca, poiché sono “in violazione del Primo Emendamento [della Costituzione americana] e minacciano la libertà accademica riconosciuta dalla Corte Suprema”. Harvard perciò, spiega ancora Garber, “non rinuncerà alla sua indipendenza né ai suoi diritti costituzionali”, in quanto “nessuna università privata può permettersi di essere messa sotto il controllo governativo”.

Trump ha allora sospeso immediatamente i fondi per circa 2,3 miliardi di dollari che il governo federale ha stanziato a favore dell’istituto del Massachusetts da qui ai prossimi anni. Inoltre, il presidente ha minacciato anche di cancellare lo status di istituzione esentasse di cui gode Harvard, imponendo all’università un carico fiscale come se fosse un “soggetto politico”. Secondo la stampa USA, il denaro a rischio sarebbe molto di più, pari a circa 9 miliardi di dollari complessivi se dovessero essere riviste tutte le fonti di finanziamento e si includessero le istituzioni affiliate all’università.

Con una dotazione complessiva stimata in circa 50 miliardi di dollari, Harvard è l’università più ricca del pianeta, oltre che la più antica e prestigiosa degli Stati Uniti. L’opposizione che i suoi vertici stanno dimostrando nei confronti dell’amministrazione Trump non può fare dimenticare la gestione a dir poco ambigua delle proteste dei mesi scorsi contro il genocidio palestinese per mano di Israele. Il pretesto dell’antisemitismo era stato utilizzato anche in questo istituto per cercare di soffocare le manifestazioni di studenti e docenti, sfociate nell’occupazione di una parte del campus nell’aprile dello scorso anno.

I dimostranti chiedevano in primo luogo il ritiro degli investimenti dell’università nelle compagnie produttrici di armi e in quelle associate in qualche modo a Israele. Il presidente Garber aveva da parte sua denunciato l’occupazione e le proteste, perché a suo dire intralciavano le attività accademiche. A maggio del 2024 era stato raggiunto un accordo per mettere fine alle manifestazioni e all’occupazione, ma le richieste degli studenti erano sembrate essere state accolte solo in minima parte. Harvard ha d’altra parte legami molti stretti e redditizi, a cui non intende rinunciare facilmente, con l’apparato governativo, militare e dell’intelligence degli Stati Uniti.

Presidenti, vice-presidenti e svariate altre personalità che hanno ricoperto e ricoprono incarichi politici e amministrativi di primissimo piano sono usciti da questa università, contribuendo a renderla un pilastro del sistema di potere americano. Nonostante l’indissolubile legame con le élites d’oltreoceano, Harvard è ovviamente anche un istituto di ricerca prestigioso che produce risultati universalmente riconosciuti in molti ambiti. Se la direzione di questo istituto ha scelto una posizione diametralmente opposta rispetto ad esempio a quella della Columbia University, che a marzo aveva capitolato alle “richieste” della Casa Bianca per poi annunciare una possibile marcia indietro nelle ultime ore, ad un’analisi più attenta la realtà dei fatti risulta molto più sfumata.

Come già anticipato, i vertici di Harvard hanno usato e continuano a usare il finto problema dell’antisemitismo per criminalizzare ogni forma di opposizione contro le politiche criminali di Israele. Il presidente Garber, indubbiamente esposto a fortissime pressioni da parte dei finanziatori della sua università, si è detto poi aperto e disponibile al dialogo con l’amministrazione Trump ed è quindi più che probabile che, nell’eventualità di una trattativa, la direzione di Harvard sarebbe pronta ad accettare certi vincoli o compromessi, soprattutto se fossero proposti in modo tale da evitare un danno di immagine e l’esplosione di altre proteste nel proprio campus.

Al momento non sembra esserci tuttavia molta disponibilità a negoziare da parte della Casa Bianca. Oltretutto, la sezione di Harvard dell’associazione americana dei docenti universitari, con la partecipazione della stessa organizzazione a livello nazionale, ha fatto causa all’amministrazione Trump la settimana scorsa, chiedendo un’ingiunzione per annullare la decisione di sospendere lo stanziamento di fondi federali all’università. Il clima generale appare insomma tesissimo e tutto fa intendere che ci possa essere un’ulteriore escalation dello scontro, che vede come posta in gioco una fetta importante della libertà accademica, di assemblea e di espressione negli Stati Uniti.

La vicenda, al di là dell’attitudine dei vertici di Harvard, si inserisce ad ogni caso in uno scenario più ampio, segnato da un attacco frontale ai diritti democratici garantiti dalla Costituzione da parte dell’amministrazione Trump. Solo limitandosi all’ambito accademico, la Casa Bianca sta conducendo una caccia alle streghe virtualmente senza precedenti nei confronti degli studenti stranieri che hanno espresso qualsiasi forma di opposizione o di protesta contro il genocidio in corso a Gaza.

Alcuni di essi sono in stato di detenzione pur non avendo commesso nessun reato, mentre a moltissimi altri è già stato revocato il visto studentesco con una semplice direttiva emessa dal dipartimento di Stato. Pur in assenza di dati ufficiali, alcune indagini di pubblicazioni specializzate parlano di quasi 1.200 provvedimenti di questo genere già attuati, anche se, nonostante le cause legali intentate, il numero è destinato a salire ulteriormente nelle prossime settimane.

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