Il quarto tour in Medio Oriente del segretario di Stato americano, Antony Blinken, dall’inizio dell’aggressione israeliana a Gaza si concluderà nuovamente senza una tregua permanente nonostante l’impegno pubblico del governo USA per una de-escalation nella striscia. Anche l’obiettivo di ridurre i pericoli di un allargamento del conflitto rischia di essere disatteso, con le tensioni tra lo stato ebraico e Hezbollah in Libano sempre più vicine al punto di rottura.

Il capo della diplomazia di Washington è arrivato domenica scorsa in Giordania e ha già visitato l’Arabia Saudita, gli Emirati Arabi e il Qatar, prima di approdare martedì in Israele. In tutte le tappe, Blinken ha ribadito come il suo paese intenda continuare ad adoperarsi per stabilizzare la situazione in Medio Oriente, ma un misto di impotenza, paura e duplicità ostacola il raggiungimento di una soluzione pacifica alla crisi in atto.

Alla base del fallimento di Blinken resta il fatto che gli USA sono essi stessi la causa principale dell’escalation di violenza nella regione. In primo luogo tramite il sostegno incondizionato a Israele. Le dichiarazioni pubbliche a favore della pace rimangono parole vuote di fronte alle azioni americane che permettono al regime sionista di continuare a massacrare la popolazione palestinese a Gaza.

 

La decisione di non imporre dei paletti alla brutalità israeliana alimenta la resistenza in Medio Oriente, con il conseguente infiammarsi degli altri fronti dello scontro: dal Libano alla Siria, dallo Yemen all’Iraq. Blinken ha insistito inoltre in tutti i paesi visitati sulla necessità di risolvere la crisi palestinese attraverso il rilancio della soluzione dei “due stati”, mentre ha insistito sul ritorno nelle proprie abitazioni dei profughi interni a Gaza. Sul campo, tuttavia, Israele sta rendendo la striscia un deserto di macerie e distruggendo definitivamente ogni speranza per la creazione di uno stato palestinese. E il tutto sempre grazie al sostegno totale degli Stati Uniti.

In altri termini, Washington continua a fare finta di non comprendere che l’escalation che vorrebbe evitare in Medio Oriente è collegata esclusivamente alla prosecuzione del genocidio israeliano a Gaza. Senza un’iniziativa ferma che imponga la fine dell’aggressione contro i palestinesi, non ci saranno insomma passi indietro da parte di tutto l’arco della resistenza nella regione.

Il fronte più caldo in questo senso è sempre quello libanese. Scambi di artiglieria si susseguono da ottobre, anche se ad aggravare la situazione è stato l’assassinio da parte di Israele la settimana scorsa a Beirut del numero due dell’ufficio politico di Hamas, Saleh al-Arouri. In risposta, nel fine settimana Hezbollah ha lanciato oltre sessanta missili contro la base militare israeliana sul monte Meron, centro nevralgico delle operazioni militari dello stato ebraico sul fronte settentrionale.

Ancora, lunedì Israele ha colpito un’auto nel sud del Libano sulla quale viaggiava il vice-comandante di una brigata di élite del “Partito di Dio”, Wissam al-Tawil, uccidendolo assieme a un altro combattente di Hezbollah. Martedì, infine, altri tre affiliati a Hezbollah sono finiti vittime del fuoco israeliano. Hezbollah, a sua volta, ha preso di mira varie installazioni del comando militare settentrionale di Israele. Secondo alcune stime, a partire dal 7 ottobre scorso Israele avrebbe eliminato più di 130 uomini di Hezbollah in Libano, mentre il partito-milizia sciita sostiene di avere provocato circa duemila tra morti e feriti tra le forze di occupazione.

Negli ultimi giorni si sono moltiplicate le minacce di un allargamento della guerra al Libano da parte dei leader politici e militari israeliani. Allo stesso tempo, alcuni esponenti del governo sionista hanno prospettato l’ipotesi di un accordo che eviti una guerra su vasta scala lungo il confine nord. Gli stessi vertici di Hezbollah non hanno chiuso la porta a quest’ultima ipotesi, anche se le condizioni elencate nel discorso di settimana scorsa dal leader del movimento, Hassan Nasrallah, riportano la questione al ruolo di Washington nella crisi.

Hezbollah esclude qualsiasi negoziato fino a quando Israele non accetterà una tregua permanente a Gaza, per la quale però gli Stati Uniti non sembrano pronti a lavorare facendo pressioni serie sul regime di Netanyahu. L’efficacia delle operazioni militari condotte fin qui contro Israele ha fatto salire le azioni di Hezbollah, tanto da spingere Nasrallah a elencare altre condizioni per la stabilizzazione del fronte meridionale. Un possibile accordo dovrebbe infatti includere almeno anche il ritiro delle forze sioniste dai territori libanesi occupati (Fattorie di Shebaa e Ghajar) e lo stop alle violazioni della sovranità libanese da parte di Tel Aviv, attuate principalmente tramite bombardamenti e assassini mirati.

La logica israeliana conduce allo scontro aperto con Hezbollah per due ragioni. La prima è di natura politica e riguarda il baratro che attende Netanyahu se la guerra a Gaza dovesse concludersi. Dimissioni, sconfitta elettorale e condanna nel processo per corruzione che lo vede coinvolto è quanto lo attende. Per questa ragione, il primo ministro israeliano sta cercando in tutti i modi di prolungare e allargare il conflitto. L’altro elemento da considerare è il desiderio di stabilizzare sul lungo periodo il fronte settentrionale – da dove centinaia di migliaia di residenti israeliani sono stati evacuati a partire da ottobre – neutralizzando la minaccia di Hezbollah.

Evidentemente, l’apertura di un secondo fronte, per non parlare dell’eventuale ingresso dell’Iran nel conflitto, prospetta una colossale sconfitta per lo stato ebraico. Un articolo pubblicato nei giorni scorsi dal Washington Post ha citato un’analisi dell’intelligence militare americana (DIA) secondo la quale le forze sioniste “molto difficilmente” riuscirebbero a prevalere in una guerra su due fronti con Hezbollah e Hamas.

Netanyahu punta quindi a provocare una reazione da parte di Hezbollah e, forse, della Repubblica Islamica che costringa gli Stati Uniti a intervenire militarmente a fianco dell’alleato. L’amministrazione Biden assicura di non volere un’escalation, ma un’offensiva massiccia contro Israele da parte della resistenza non lascerebbe spazi di manovra alla Casa Bianca. È chiaro ad ogni modo che gli USA sono essi stessi i primi responsabili della situazione esplosiva in cui si ritrova il Medio Oriente, dal momento che, come già spiegato in precedenza, continuano a scartare l’unica iniziativa in grado di abbassare le tensioni, vale a dire l’imposizione di una tregua a Gaza facendo leva sulla quasi dipendenza militare israeliana da Washington.

Sulla riluttanza americana agiscono diversi fattori, a cominciare dall’influenza smisurata che esercita sulla politica d’oltreoceano la lobby sionista, soprattutto alla vigilia della campagna elettorale per le presidenziali di novembre. Resta il fatto che l’equilibrismo di Biden è doppiamente rischioso. È innegabile che la politica estera USA sotto l’influsso “neo-con” conosca come strategia quasi unicamente quella del caos, ovvero la guerra perenne che ostacola il consolidarsi di forze antagoniste. L’esplosione in Medio Oriente di un conflitto di vaste proporzioni finirebbe però per danneggiare ancora di più la posizione americana, già gravemente deteriorata dall’appoggio assicurato al genocidio palestinese, aprendo altri spazi strategici ed economici a potenze come Russia e Cina.

In quel Medio Oriente dove Blinken si aggira impotente il clima è d’altra parte già cambiato da tempo. Le speranze legate alla “normalizzazione” dei rapporti tra Israele e potenze regionali come l’Arabia Saudita restano minime e difficilmente l’approccio arabo finirà per cambiare se non saranno intraprese iniziative efficaci per risolvere la crisi palestinese. Gli Stati Uniti condividono con Tel Aviv l’obiettivo di eliminare Hamas e di indebolire l’asse della resistenza, ma la tattica per raggiungere entrambi non coincide e le esitazioni della Casa Bianca rischiano di lasciare l’iniziativa a un Netanyahu disperato e al suo regime di fanatici di ultra-destra.

Nel frattempo, il segretario di Stato USA deve registrare l’ennesimo flop nella sua “missione” in Medio Oriente e il ritorno a Washington potrebbe essere accompagnato a breve dall’apertura di un nuovo pericolosissimo fronte di guerra tra lo stato ebraico e Hezbollah lungo il confine libanese.

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