Se l’accordo per un cessate il fuoco più o meno stabile tra Israele e Hezbollah in Libano è stato accolto quasi universalmente con favore, vista la violenza scatenata dal regime di Netanyahu negli ultimi due mesi, le garanzie che la pace sia duratura lungo il confine nord dello stato ebraico restano al momento piuttosto esili. Il premier israeliano e l’amministrazione Biden hanno fatto di tutto per vendere la tregua come un successo indiscutibile di Tel Aviv. La realtà dei fatti presenta tuttavia uno scenario molto diverso. Il genocidio palestinese a Gaza, quanto meno nell’immediato, non sarà influenzato dagli eventi libanesi, ma la fine concordata delle ostilità nel “paese dei cedri” avviene indiscutibilmente senza che nessuno dei principali obiettivi prefissati da Netanyahu all’inizio dell’invasione sia stato raggiunto.

Dalle ricostruzioni proposte dai media locali e internazionali, il contenuto dell’accordo sarebbe stato modificato in vari punti su richiesta di Hezbollah, i cui vertici hanno respinto le condizioni che assegnavano virtualmente mano libera a Israele in Libano e avrebbero portato a poco meno dello smantellamento dell’ala militare del “Partito di Dio”. Nella caratterizzazione della tregua di Tel Aviv e Washington restano tuttavia elementi che, se effettivamente sottoscritti dalle due parti, darebbero vantaggi importanti a Israele.

Uno dei punti centrali è il meccanismo creato per gestire violazioni del cessate il fuoco. Da quanto si legge in queste ore, se Israele dovesse registrare infrazioni da parte di Hezbollah, dovrebbe darne segnalazione a una speciale “commissione internazionale”, guidata dagli Stati Uniti in collaborazione con la Francia. In caso la violazione fosse confermata, spetterebbe all’esercito regolare libanese intervenire, ma se ciò non dovesse accadere allora Israele avrebbe facoltà di intraprendere iniziative militari. Non ci sono stati invece riferimenti a un procedimento di questo genere a parti invertite, ovvero se Hezbollah dovesse essere esposto a trasgressioni della tregua da parte israeliana. Inizialmente, addirittura, Biden aveva parlato di diritto all’auto-difesa solo per Israele, prima che un esponente dell’amministrazione americana rettificasse confermando che questo diritto spetta a entrambe le parti.

L’accordo prevede nel concreto il ritiro, entro i prossimi 60 giorni, delle forze israeliane dal Libano meridionale e di quelle di Hezbollah a nord del fiume Litani, così da lasciare un’area oltre il confine dello stato ebraico presidiata solo dalle forze armate regolari libanesi e dal contingente ONU (UNIFIL). Si tratta in sostanza del dettato della risoluzione del Consiglio di Sicurezza n. 1701 che mise fine alla guerra del 2006, in quel caso come in quello attuale conclusa a sfavore di Israele. Quelle condizioni non sono mai state del tutto implementate a causa delle continue violazioni della sovranità del Libano da parte israeliana.

Tutte le indicazioni suggeriscono anche oggi che Netanyahu intende continuare a muoversi liberamente in Libano, rendendo fragile da subito la tregua appena entrata in vigore. Dopo l’approvazione dell’accordo da parte del suo gabinetto martedì sera, il premier israeliano ha rilasciato una dichiarazione ufficiale ultra-aggressiva attribuendosi prerogative in larga misura non previste dal cessate il fuoco. Netanyahu ha ad esempio sostenuto che, in accordo con Washington, Israele conserva “piena libertà di azione militare” in Libano e, se Hezbollah dovesse “ricostruire le proprie infrastrutture terroristiche”, le forze sioniste torneranno ad attaccare.

L’ostentazione di forza di Netanyahu serve a confondere le acque e attenuare la portata della sconfitta strategica incassata sul fronte libanese. Ciò che il premier minaccia se Hezbollah dovesse riprendere l’iniziativa militare è d’altra parte quanto Israele ha fatto negli ultimi due mesi senza riuscire a eliminare il partito-milizia sciita dall’equazione libanese. Proprio a causa del fallimento delle operazioni, con l’aumento vertiginoso delle perdite in termini di uomini e mezzi, Netanyahu ha dovuto alla fine cedere alla tregua, malgrado i rischi politici che essa comporta.

Su un piano più generale e proprio per il fiasco sul fronte militare, Israele cerca in tutti i modi di ottenere i risultati auspicati all’inizio dell’invasione per mezzo della diplomazia. Uno di essi è la creazione di una vera e propria area cuscinetto oltre il confine settentrionale, cancellando la presenza anche dei civili libanesi costretti a evacuare la zona nei mesi scorsi. I vertici militari sionisti e il ministro della Difesa, Israel Katz, tra martedì e mercoledì hanno intimato ai residenti del Libano meridionale di non tornare nelle proprie abitazioni perché il divieto sarebbe ancora in vigore. Di ciò non vi è però traccia nell’accordo e non è chiaro se un intervento di Israele contro i civili che già stanno raggiungendo le loro case sarà da considerare una violazione della tregua.

Quello che in molti sospettano è comunque che Israele potrà in qualche modo rompere l’accordo e attribuirne la responsabilità a Hezbollah, per poi riprendere le operazioni militari. Molto dipende anche dagli effetti che produrrà il cessate il fuoco sul fronte interno. La decisione di dare il via libera alla tregua è stata infatti sfruttata politicamente dall’opposizione israeliana. Soprattutto l’ex ministro del defunto gabinetto di guerra, Benny Gantz, ha denunciato l’accordo perché non elimina la minaccia di Hezbollah, come era stato promesso da Netanyahu, né lascia totale libertà di azione alle forze sioniste in Libano.

Entrambi gli obiettivi sono impossibili da raggiungere, come hanno dimostrato le dinamiche sul campo, ma i rivali politici di Netanyahu cercano di fare leva sul malcontento di una buona parte della popolazione israeliana per indebolire il primo ministro. I coloni nel nord dello stato ebraico, che hanno da oltre un anno lasciato le loro abitazioni in seguito ai bombardamenti di Hezbollah, si sono espressi infatti a sfavore della tregua, visto che nel prossimo futuro potrebbe facilmente riesplodere il conflitto che li metterebbe nuovamente a rischio.

Non è da escludere che i vertici di Hezbollah abbiano accettato qualche passo indietro rispetto alle condizioni poste inizialmente per la tregua, a cominciare dallo stop all’aggressione nella striscia di Gaza, confidando in un contraccolpo letale per Netanyahu sul fronte domestico. Stando ai giudizi positivi espressi per l’accordo dagli alleati dell’Asse della Resistenza, inclusi i leader di Hamas, è inoltre probabile che l’obiettivo sia quello di creare, sulla scia del cessate il fuoco in Libano, un clima che favorisca la fine dell’aggressione anche a Gaza.

Nella galassia dell’informazione indipendente e sui social media si sta discutendo non poco del fatto che i palestinesi nella striscia siano stati abbandonati a loro stessi dalla tregua sottoscritta da Hezbollah. Sotto la guida di Hassan Nasrallah, assassinato a Beirut da un bombardamento israeliano lo scorso settembre, l’imperativo espresso dal “partito di Dio” era infatti sempre stato quello di accettare una tregua solo se essa fosse stata estesa a Gaza.

In questo senso, i nuovi comandanti sembrano avere ceduto a Tel Aviv e Washington, ma parlare di abbandono o, ancora peggio, di tradimento della causa palestinese è a dir poco ingeneroso. Non c’è dubbio che Hezbollah abbia dovuto incassare una serie di colpi molto pesanti dall’aggressione israeliana che ne ha decapitato in rapida successione la leadership. Tuttavia, nonostante la situazione complicatissima, il movimento sciita è rimasto compatto, formulando una strategia militare efficace che ha alla fine costretto lo stato ebraico a fermare l’offensiva.

Come hanno riconosciuto anche gli esponenti di Hamas, Hezbollah ha fatto moltissimo per la causa palestinese nell’ultimo anno e pagato per questo un prezzo altissimo. Tra i risultati ottenuti non c’è per il momento la fine delle atrocità a Gaza, ma il bilancio per Israele resta nettamente in negativo. Il ritorno dei coloni israeliani nel nord del paese minaccia ad esempio di protrarsi indefinitamente, mentre le perdite di soldati e mezzi israeliani risultano altissime, con conseguenze enormi in termini di morale e logistica bellica. Le azioni di Hezbollah hanno inoltre messo in luce la debolezza dei sistemi difensivi israeliani, dal momento che missili e droni lanciati dal Libano sono spesso penetrati senza problemi nel territorio dello stato ebraico, arrivando a colpire città in genere considerate intoccabili, come Tel Aviv e Haifa.

In tutti i casi, gli eventi di questi giorni non devono essere considerati definitivi. Molti aspetti della crisi multiforme in corso in Medio Oriente restano irrisolti e Netanyahu vuole utilizzare la pacificazione del fronte libanese per concentrarsi sul genocidio palestinese a Gaza e proseguire l’escalation con l’Iran. Con l’avvicinarsi dell’appuntamento con la giustizia israeliana per i procedimenti legali finora rinviati e il ritorno alla Casa Bianca di Trump, il premier israeliano potrebbe cercare di alimentare ulteriormente le tensioni nella regione. La risposta della Resistenza in quel caso sarebbe ancora più decisa e lo stesso Hezbollah rientrerebbe in campo, attingendo a un arsenale bellico solo in minima parte utilizzato per rispondere all’aggressione israeliana e che le condizioni della tregua molto difficilmente riusciranno a intaccare.

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