I risultati del primo turno delle elezioni presidenziali nella giornata di domenica in Romania hanno mandato letteralmente in corto circuito politici, stampa e commentatori indigeni e occidentali, tutti colti di sorpresa dal primo posto ottenuto dal candidato indipendente di estrema destra, Calin Georgescu. Già frequentatore ai margini della politica romena, quest’ultimo ha smentito completamente le previsioni della vigilia e i primi exit poll, accedendo comodamente al secondo turno di ballottaggio grazie a una serie di fattori, tra cui la decisione di impostare la sua campagna elettorale sulla denuncia delle politiche guerrafondaie e ultra-liberiste dettate da Bruxelles e sull’apertura alla possibile normalizzazione dei rapporti con la Russia.

La parola “shock” è senza dubbio la più ricorrente in queste ore sui media ufficiali per descrivere il successo di Georgescu. Lo shock riguarda però solo coloro che si illudevano in una facile affermazione dei candidati dell’establishment totalmente allineato alle posizioni NATO e UE sulle questioni economiche e, soprattutto, sulla guerra in Ucraina. Come in molte altre occasioni è accaduto in un anno con numerosi appuntamenti elettorali, a risultare vincente è stata invece l’opposizione alle politiche promosse da un’élites ultra-screditata e lontana anni luce dagli interessi dei singoli paesi europei e delle rispettive popolazioni.

Georgescu aveva ricoperto negli anni Novanta alcuni incarichi al ministero dell’Ambiente romeno e fino al 2012 era stato il rappresentate del suo paese presso il Programma delle Nazioni Unite per l’Ambiente. Il fatto che praticamente nessuno lo avesse preso sul serio prima del voto di domenica dipende in primo luogo dalla sua assenza dai principali media romeni nel corso della campagna elettorale. Sui social media ha al contrario un certo seguito e in particolare su TikTok era riuscito a ottenere milioni di “like” e visualizzazioni con video incentrati, tra l’altro, su attività e dichiarazioni in difesa dei valori religiosi tradizionali.

Nel passato più recente, Georgescu era stato il candidato alla guida del governo per il partito populista Alleanza per l’Unione dei Romeni (AUR), prima di essere messo da parte per le sue simpatie – espresse apertamente – per il dittatore collaborazionista del nazismo tra le due guerre mondiali, Ion Antonescu. Più che per le simpatie neo-naziste, tuttavia, il vincitore del primo turno delle presidenziali in Romania è visto con estrema apprensione e sarà sottoposto a feroci attacchi politici nelle prossime due settimane per via dei pareri espressi sulla Russia, la NATO e la guerra in Ucraina.

Sulla scia del premier ungherese Orban, Georgescu ha chiesto lo stop agli aiuti militari al regime di Zelensky, mentre ha definito pericolosa la decisione di installare missili NATO sul territorio romeno. Questa misura provocatoria nei confronti di Mosca, secondo Georgescu, non è nell’interesse della Romania e rischia di scatenare la reazione russa. In una simile tragica eventualità, l’Alleanza Atlantica a suo dire non sarebbe in grado di proteggere il paese. In altre occasioni aveva poi espresso ammirazione per le doti di “leadership” di Putin, cosa che, assieme alle posizioni fuori dal mainstream europeo sulla guerra in corso, gli è valsa l’etichetta di burattino del Cremlino.

L’altro ambito in cui il messaggio di Georgescu ha trovato accoglienza favorevole tra gli elettori è quello economico. Il disastro provocato in tre decenni dal ristabilimento del capitalismo in Romania, paese UE con la percentuale più alta di abitanti a rischio povertà, è stato sfruttato da questo candidato per proporre una sorta di nazionalismo economico e il rilancio del settore agricolo indigeno. Deterioramento della situazione economica e prosecuzione della guerra in Ucraina sono comunque elementi intimamente legati e lo stesso Georgescu, dopo la diffusione dei primi risultati che lo vedevano in testa, ha spiegato il suo successo con la “invocazione della pace” da parte degli elettori.

La prestazione di Georgescu è anche l’ennesima bocciatura di politici e partiti che hanno più o meno dominato finora la scena politica di un paese europeo. In Romania, queste formazioni sono il Partito Nazionale Liberale (PNL) di centro-destra e i socialdemocratici (PSD), i cui candidati nel primo turno delle presidenziali di domenica hanno ottenuto complessivamente meno del 30% dei consensi.

Clamorosa è stata l’eliminazione del candidato del PSD, il primo ministro in carica Marcel Ciolacu, inizialmente dato al secondo posto dietro a Georgescu, ma con l’avanzare dei conteggi superato dalla liberale ultra-atlantista Elena Lasconi (Unione Salvate la Romania), attuale sindaco della cittadina di Campulung. Si tratta della prima volta in assoluto nel periodo post-comunista che il PSD non portato un proprio uomo al ballottaggio nelle presidenziali. Elena Lasconi sembra avere ricevuto la spinta decisiva in extremis dai voti dei romeni in Canada e negli Stati Uniti, grazie anche all’intervento dei leader dell’opposizione che si sarebbero mobilitati nel pieno della notte romena per sollecitare gli espatriati d’oltreoceano a recarsi a votare ed evitare di lasciare il paese “tra Putin e i socialdemocratici”.

È singolare che un candidato populista a cui venivano attribuite simpatie putiniane era in realtà dato come possibile sorpresa per le presidenziali. Non si trattava però di Georgescu, ma di George Simion del già ricordato partito AUR, le cui posizioni vengono accostate a quelle della Meloni o di Marine Le Pen in Francia. Anche Simion si era espresso per l’interruzione degli aiuti all’Ucraina e in maniera spesso critica verso l’Unione Europea. Su entrambe le questioni aveva comunque assunto posizioni più sfumate in campagna elettorale, a conferma della tendenza della destra populista europea a presentarsi in un certo modo agli elettori e ad agire in maniera opposta – ovvero allineandosi a Washington e Bruxelles – una volta al potere o vicina a esso. Comunque sia, con appena il 14% dei voti, Simion è stato alla fine escluso dal ballottaggio.

Con i conteggi delle schede quasi ultimati, Calin Georgescu ha sfiorato il 23%, staccando Elena Lasconi, poco sopra il 19% e con qualche migliaio di voti di vantaggio su Ciolacu. Sarà ora interessante osservare il comportamento degli elettori romeni, ancora prima del ballottaggio dell’8 dicembre, nelle elezioni legislative di domenica prossima. Georgescu non fa parte attualmente di nessun partito, anche se è stato membro in passato di quello di estrema destra AUR. Di certo, le pressioni su di lui saranno enormi da parte della stampa ufficiale e dei partiti atlantisti.

Dopo il flop del primo turno non c’è infatti da aspettarsi nemmeno un minimo di autocritica per le politiche impopolari e suicide in un paese in primissima linea nel conflitto ucraino e, ancora peggio, in un’eventuale conflagrazione con il coinvolgimento diretto della NATO. Né tantomeno sulle ragioni del fatto che l’opposizione alla guerra e al pensiero unico neoliberalista arrivi quasi sempre solo dalla destra populista e mai, se non in rarissimi casi, da sinistra. Al contrario, l’establishment romeno e quello occidentale punteranno sulla tattica preferita in questi anni, rispolverando, come già è stato fatto in queste ore, le accuse di interferenze russe nelle elezioni di domenica.

Il particolare che Georgescu non fosse considerato da nessun sondaggio come un possibile candidato al ballottaggio fornisce d’altronde l’assist alle teorie complottiste che riconducono sempre e comunque al Cremlino le ragioni dei fallimenti, degli errori e dell’incapacità della classe dirigente occidentale. Nella maggior parte dei casi, il livello di coordinamento di queste campagne ad altissimo livello e il monopolio dell’informazione ufficiale consentono di tenere i candidati “putiniani” – ovvero che chiedono un’inversione di rotta dal baratro in cui sta precipitando l’Europa – lontani dal potere. Il discredito in cui versa la classe politica occidentale, inclusa quella romena, potrebbe però non garantire anche in questo caso lo stesso risultato.

Chi si aggiudicherà il ballottaggio prenderà il posto del conservatore Klaus Iohannis, che ha esaurito il massimo dei due mandati previsti dalla Costituzione. Il presidente uscente è stato un fedele partner dell’Europa e della NATO, con tutte le conseguenze del caso per il suo paese. Gli orientamenti di politica estera di Bucarest saranno influenzati in maniera significativa dall’esito della sfida tra Georgescu e Lasconi, dal momento che, in Romania, quella di presidente è una carica “semi-esecutiva”, con poteri concreti nell’ambito militare, della sicurezza e della politica estera.

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