Israele, criminali senza giustizia

di Mario Lombardo

La decisione di giovedì della Corte Penale Internazionale (CPI) di emettere un mandato di arresto per Benjamin Netanyahu e Yoav Gallant rappresenta in larga misura un atto simbolico che mette però ancora una volta in luce, in maniera clamorosa, responsabilità e complicità dei sostenitori dello stato ebraico nel genocidio in corso. Il premier e l’ex ministro della Difesa israeliani,...
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Rubio, un gusano alla Casa Bianca

di Fabrizio Casari

L’annunciata nomina di Marco Rubio a prossimo Segretario di Stato dell’Amministrazione Trump, per molti aspetti inquieta tutti coloro che ritengono la carica decisamente superiore allo standing del politicante di origine cubana. Come evidenziato da molti e confermato dal suo curriculum, Rubio non brilla per qualità politiche né per percorsi istituzionali ragguardevoli che ne abbiano messo in risalto le doti diplomatiche. Più che una nomina adeguata al ruolo, quindi, appare piuttosto il rimborso politico dovuto agli stati del Sud e, in particolare, alle organizzazioni di fuoriusciti cubani, venezuelani e nicaraguensi, che rappresentano la parte più putrida dello stato circondato dalle Everglades piene di ogni insidia. Benché...
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di Michele Paris

La commissione elettorale dell’Indonesia ha finalmente messo fine a settimane di incertezze e scambi di accuse reciproche tra i due candidati alla guida del paese, assegnando la vittoria nelle elezioni presidenziali del 9 luglio scorso all’ex governatore di Jakarta, Joko “Jokowi” Widodo. Il nuovo leader del più popoloso paese musulmano del pianeta ha superato l’ex generale durante la dittatura di Suharto, Prabowo Subianto, facendo trarre un sospiro di sollievo agli Stati Uniti e alla comunità internazionale degli affari.

Al termine di un laborioso spoglio di oltre 133 milioni di schede provenienti da quasi mezzo milione di seggi elettorali, “Jokowi” ha ottenuto poco più del 53% dei consensi contro quasi il 47% del suo unico rivale. A scegliere il primo sono stati quasi 71 milioni di elettori, mentre al secondo sono andati 62,5 milioni di suffragi. Considerevole è stato il livello di astensionismo, stimato attorno al 30%.

Di fronte agli elettori indonesiani si sono presentati solo due candidati per la carica di presidente a causa dell’anti-democratica legge elettorale che consente solo ai partiti o alle coalizioni che detengono almeno il 20% dei seggi o hanno raccolto il 25% del voto popolare nelle elezioni legislative di presentare un proprio candidato. Nel voto per il rinnovo del parlamento nel mese di aprile, nessun partito aveva superato questa soglia, così che “Jokowi” e Prabowo sono stati candidati solo dopo la formazione di due nuove alleanze ad hoc.

Joko Widodo succederà così nel mese di ottobre al presidente uscente Susilo Bambang Yudhoyono, il quale ha esaurito il limite massimo di due mandati previsto dalla Costituzione indonesiana. “Jokowi” è anche il primo dei cinque presidenti dell’era democratica in Indonesia a non avere ricoperto un qualche incarico ufficiale durante la dittatura di Suharto (1967-1998).

Pressoché sconosciuto alla gran parte degli indonesiani fino a pochi anni fa, il 53enne “Jokowi” aveva iniziato la sua carriera pubblica come sindaco della piccola città di Solo, nella provincia di Java centrale, ed è stato proiettato ai vertici della politica del suo paese grazie ai legami con i pezzi grossi del Partito Democratico Indonesiano di Lotta (PDI-P) della ex presidente Megawati Sukarnoputri, i quali hanno accuratamente promosso la sua immagine di politico pragmatico e di “uomo del popolo”.

L’annuncio dei risultati ufficiali non ha comunque chiuso l’accesa disputa in corso tra i due candidati, iniziata all’indomani del voto con la pubblicazione degli exit poll che avevano in gran parte indicato la vittoria di “Jokowi”. Prabowo aveva a sua volta citato un paio di istituti di ricerca che assegnavano invece a egli stesso la maggioranza dei consensi e si era perciò lanciato in pesanti accuse di brogli.

A poche ore dalla comunicazione dei risultati da parte della commissione elettorale nella giornata di martedì, Prabowo aveva addirittura minacciato di ritirare la propria candidatura per impedire l’annuncio del successo del suo avversario. Poco più tardi, l’ex generale diventato imprenditore ha fatto rientrare la minaccia ma ha comunque ritirato i suoi osservatori al conteggio e il suo staff ha fatto sapere di volere presentare un appello alla Corte Costituzionale sulla base di irregolarità riguardanti fino a 21 milioni di voti espressi in 52 mila seggi elettorali. La Corte avrà tempo fino alla metà di agosto per pronunciarsi ma la denuncia, secondo gli esperti, ha ben poche possibilità di andare a buon fine.

Dietro alla candidatura di Prabowo ci sono in particolare quelle sezioni delle élite indonesiane che si sono arricchite durante la dittatura e continuano a mantenere posizioni di rilievo nel paese del sud-est asiatico. Lo stesso Prabowo, il quale era il genero di Suharto, e il fratello, Hasim Djojohadikusumo, sono alla guida di gruppi imprenditoriali che operano in svariati settori con giri d’affari miliardari.

La combattività mostrata da Prabowo fin dalle elezioni di inizio luglio è dovuta anche all’assottigliarsi del vantaggio di “Jokowi” nelle settimane che avevano preceduto il voto. Fino al mese di maggio, infatti, i sondaggi indicavano per quest’ultimo un vantaggio superiore ai 12 punti percentuali ma, grazie anche alle maggiori risorse finanziarie di Prabowo e all’appoggio di molte importanti personalità politiche ottenuto dall’ex generale, tra cui quello del presidente uscente Yudhoyono,  la corsa aveva finito per diventare una sorta di testa a testa.

A favore della candidatura di “Jokowi” era intervenuto anche il governo americano nonostante la neutralità ufficiale dichiarata dall’amministrazione Obama. Proprio in concomitanza con la pubblicazione di sondaggi preoccupanti per “Jokowi”, l’ambasciatore USA a Jakarta, Robert Blake, in un articolo del Wall Street Journal a fine giugno aveva invitato l’establishment indonesiano a indagare sulle sospette violazioni dei diritti umani commesse in passato da Prabowo.

L’insolito intervento americano era scaturito dall’apparizione, tramite lo staff di “Jokowi”, di documenti relativi ai presunti crimini di Prabowo, da tempo peraltro accusato di essere responsabile di rapimenti e torture di studenti e oppositori di Suharto in qualità di capo delle famigerate forze speciali Kopassus.

La denuncia sui generis degli Stati Uniti era giunta non tanto per ragioni di giustizia o per scrupoli particolari per i diritti umani della popolazione indonesiana ma per motivi esclusivamente di natura strategica. D’altra parte, anche nella squadra di “Jokowi” ci sono molte figure compromesse col vecchio regime, tra cui l’ex generale ed ex candidato alla presidenza Wiranto, incriminato formalmente per crimini contro l’umanità nell’ambito delle atrocità commesse dall’esercito durante il ritiro da Timor Est nel 1999.

Washington, inoltre, ha alle spalle una lunga storia di interventi in Indonesia, a cominciare proprio dall’appoggio al colpo di stato militare di Suharto che portò alla dittatura e a una durissima repressione con centinaia di migliaia di morti.

In particolare, l’amministrazione Obama temeva una presidenza Prabowo per via del marcato nazionalismo dell’ex generale, considerato con ogni probabilità non sufficientemente propenso ad aprire ulteriormente il proprio paese al capitale internazionale, né ad adottare le “riforme” economiche ritenute necessarie e soprattutto, vista l’importanza strategica di questo paese, ad allineare senza riserve l’Indonesia alla “svolta” asiatica statunitense per contrastare l’avanzata della Cina.

Il programma elettorale di Prabowo includeva infatti alcune proposte di stampo populista, come la creazione di un sistema scolastico gratuito fino all’università e un aumento sensibile del salario minimo. Lo stesso Prabowo, poi, in una recente intervista sempre al Wall Street Journal, oltre a condannare l’aggressione di Israele contro Gaza, aveva messo in guardia i suoi connazionali dalla “minaccia imperialista” che graverebbe sull’Indonesia.

Al contrario, Joko Widodo, viene ritenuto un partner più affidabile sia dagli Stati Uniti che dagli ambienti finanziari internazionali e dalle grandi multinazionali del settore estrattivo che fanno profitti in Indonesia. Come ha rivelato in un’intervista realizzata per la Reuters prima della diffusione dei risultati finali del voto ma pubblicata solo dopo l’ufficialità della sua vittoria, il neo-presidente indonesiano si concentrerà da subito su una serie di questioni che difficilmente possono essere collegate all’immagine di “uomo comune” coltivata in campagna elettorale o alla promessa di alleviare gli esorbitanti livelli di povertà del suo paese.

Per cominciare, “Jokowi” si è detto disposto a negoziare con le compagnie estrattive per porre fine allo stallo seguito al divieto, deciso dall’amministrazione Yudhoyono a gennaio, di esportare minerali non processati nel tentativo di stimolare la creazione di impianti di trasformazione in Indonesia.

L’Indonesia è uno dei maggiori esportatori del pianeta di nickel, rame, bauxite e minerali ferrosi che producono profitti enormi per una manciata di multinazionali, soprattuto americane. Una di queste, la Newmont Mining, ha recentemente fatto appello all’arbitrato internazionale contro il governo di Jakarta a causa del divieto di esportazione, licenziando migliaia di dipendenti e mantenendo chiusa una miniera di cui detiene i diritti di sfruttamento.

Gli altri due punti all’ordine del giorno del prossimo governo saranno poi la riduzione dei sussidi pubblici ai prezzi dei carburanti e, come indicato nell’elenco delle “sfide immediate” stilato mercoledì dal Financial Times, il “miglioramento del clima per gli investitori”.

La fine dei sussidi che alleggeriscono parzialmente i conti delle famiglie più povere nei paesi “emergenti” sono ormai da tempo nel mirino delle rispettive classi dirigenti e degli organi finanziari internazionali come il Fondo Monetario e la Banca Mondiale. In Indonesia, questa voce di spesa ammonta a un quinto del bilancio dello stato e viene considerata uno spreco inutile di denaro dalle élite economiche e finanziarie. Sia Yudhoyono che Megawati, presidente dal 2001 al 2004, avevano in passato provato a tagliare i sussidi, scatenando però proteste popolari tra le classi più disagiate.

La creazione di un ambiente più favorevole all’afflusso di capitale straniero, infine, non rappresenta altro che una liquidazione delle regolamentazioni e dei vincoli che limitano l’ingresso degli investitori in Indonesia.

Queste e altre decisioni “difficili” metteranno subito alla prova il nuovo presidente, almeno secondo i commenti dei media ufficiali, visto che la crescita economica indonesiana continua ad essere aggiustata al ribasso e le compagnie internazionali alla ricerca di manodopera a bassissimo costo da sfruttare liberamente mostrano di preferire altre destinazioni in Asia sud-orientale.

Inevitabilmente, politiche simili provocheranno però un intensificarsi delle tensioni sociali e dovranno inoltre essere implementate in un panorama politico frammentato e senza una chiara maggioranza. Il PDI-P di “Jokowi”, infatti, fa parte di una coalizione con altri tre partiti che in parlamento controlla complessivamente appena il 37% dei seggi.

Joko Widodo, tuttavia, potrebbe presto mettere assieme una maggioranza per il suo governo, visto che all’interno del partito Golkar - già strumento politico della dittatura di Suharto e, singolarmente, partito del neo-vicepresidente Jusuf Kalla - in molti stanno manifestando il desiderio di saltare sul carro del vincitore dopo avere appoggiato in campagna elettorale la candidatura di Prabowo Subianto.


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