Barbara Capovani era una psichiatra in servizio all’SPDC – Servizio Psichiatrico di Diagnosi e Cura dell’ospedale Santa Chiara di Pisa. A 55 anni è morta, in seguito alle ferite riportate in un’aggressione avvenuta qualche giorno prima, il 21 aprile. Colpita mentre si accingeva a togliere il lucchetto alla sua bici, alla fine del turno di lavoro. Alle sue spalle è piombato all’improvviso Gianluca Paul Seung, armato di una spranga e di una incontrollabile volontà di uccidere.

Un suo ex-paziente, già resosi protagonista in precedenza di minacce e aggressioni, mai terminate con tale irreparabile epilogo. Di lui, la professoressa Capovani scriveva nel 2019: “disturbi narcisistico, antisociale, paranoico di personalità (…) il paziente appare totalmente consapevole delle proprie azioni e del loro disvalore sociale.” Appare quindi evidente che il suo assassino era cosciente di ciò che stava commettendo. Tutto questo però, non è affatto sufficiente a spiegare la drammaticità della intera vicenda, a rendere comprensibile una morte così assurda. Ad accettarla come fosse un rischio della propria professione.

 

Esattamente quarantacinque anni fa, il 13 maggio del 1978, veniva approvata la Legge 180, meglio conosciuta come Legge Basaglia. Il superamento della logica manicomiale, con la chiusura degli istituti di costrizione e reclusione forzata, diede la misura di una vera e propria rivoluzione. E in effetti, questo accadde al tramonto di un decennio che di cambiamenti e di spinta alla trasformazione ne aveva originati in quantità. In quello stesso anno, il 23 dicembre, nasceva il Servizio Sanitario Nazionale, all’interno del quale venne da subito integrata la Legge 180.

Possiamo oggi affermare con assoluta oggettiva certezza, che senza la vivacità culturale e l’attivismo politico che hanno contraddistinto quegli anni, non ci sarebbero state le basi su cui Franco Basaglia e tutto il suo entourage potessero poggiare la loro opera. Il riconoscimento a un cammino intrapreso molto tempo prima e costellato da mille ostacoli. Anche di “fuoco amico”; personalità del Partito Comunista Italiano o comunque in generale di quella Sinistra che allora era profondamente e ampiamente radicata nel tessuto sociale, non vedevano di buon occhio e anzi cercarono di osteggiare il lavoro dello psichiatra veneziano. Nondimeno, raccoglieva invece alcuni inaspettati consensi e solidarietà nella parte avversa, quella dominata dal conservatorismo della Democrazia Cristiana e dall’oscurantismo del Vaticano.

D’altronde, è forse facile immaginare le difficoltà e le perplessità della maggior parte di una popolazione ancora caratterizzata (e condizionata) da una morale contadina, dinanzi al rovesciamento totale della prospettiva della follia. E cioè affidarla alla inclusione nella società piuttosto che all’apartheid del manicomio. Franco Basaglia scomparve nel 1980, non fece in tempo ad applicare quanto fu sancito due anni addietro, e fu così anche per il larghissimo movimento di opinione che lo sostenne, tra la solita ipertrofia burocratica e la inadeguatezza istituzionale.

Nonché a causa della ondata reazionaria che travolse il decennio a seguire, e non solo. Come spesso succede, lo sguardo innovatore di quella psichiatria che metteva in discussione i dettami storici della stessa psichiatria tradizionale da cui inevitabilmente traeva origine, guardava anche oltre gli statici orizzonti fino allora conosciuti.

Uno sguardo visionario, che come cerco di argomentare qui, è indispensabile per rompere gli schemi e decretare uno stato di crisi, quindi di una cesura netta con il passato, per far emergere tutte le contraddizioni che caratterizzano una dimensione di indiscutibile diseguaglianza. E per farlo, ci vuole una dose massiccia di visionarietà, ingrediente insostituibile, insieme all’amore, per ogni autentica rivoluzione.

Barbara Capovani nel 1978 era una bambina di dieci anni, ed è lecito pensare che neanche immaginasse si sarebbe ritrovata quarant’anni dopo a dirigere un SPDC all’interno di un ospedale. Di sicuro, nella sua formazione avranno avuto primaria importanza le teorie i testi e le esperienze basagliane.

La furia omicida che le ha spezzato la vita in un ordinario pomeriggio di aprile, non è l’effetto della “libertà” di cui godono potenziali criminali grazie alla Legge 180, come spesso si vuole far credere per screditarla e ricondurre così la salute mentale negli abissi della istituzionalizzazione. È piuttosto l’esito dello smantellamento del servizio pubblico e dei presidi territoriali che da strutture di frontiera sono diventate avamposti abbandonati al proprio destino. O alla professionalità e alla dedizione di chi è chiamato a gestirli. Il lavoro però, non può essere lasciato in balia degli eventi; soprattutto, non può essere causa di una morte.

Barbara Capovani è una vittima del lavoro, l’indignazione e lo sgomento per la sua scomparsa dovranno far posto prima o poi alla rivendicazione di un diritto inalienabile: quello della sicurezza nei luoghi di lavoro. Nel periodo post-pandemico le aggressioni al personale sanitario sono aumentate in maniera esponenziale, segnalando simultaneamente la solitudine di lavoratori e lavoratrici e la crescente intolleranza di una parte della cittadinanza nei loro confronti. Colpevoli, secondo una vulgata che parte dalle aule parlamentari per arrivare ai mass media più servizievoli e alla galassia social più complottista, di inefficienza e parassitismo.

I tempi degli applausi sperticati dai balconi, durante il lockdown, per gli “eroi della Sanità”, sono ormai lontani e dimenticati. L’oblio è calato anche sugli ambiziosi programmi del PNRR, che avrebbe dovuto rimarginare le ferite inflitte dal Covid 19 mentre invece sembra destinato a consolidare il dominio delle politiche neoliberiste, oggi più che mai cariche di propaganda bellica a difesa dei “valori” occidentali. Il settore della salute mentale ha subito pertanto sia l’arretramento culturale, rispetto al balzo che aveva compiuto con Franco Basaglia, sia infrastrutturale, con il progressivo depauperamento delle risorse economiche.

L’egemonia del modello produttivo capitalista la riscontriamo anche in un ambito che potrebbe risultarne alieno, come quello del disagio psichico e delle terapie adottate per contrastarlo, poiché la cura è indirizzata a un trattamento quasi totalmente individualizzato. Per non parlare dell’abuso della farmacologia e dei ricorsi al TSO, che meriterebbe ovviamente un ragionamento a parte. Le cause esterne sono state rimosse a vantaggio di una concentrazione esclusiva sul “malato” per cancellarne i sintomi e decretarne quindi la riabilitazione sociale con un attestato di normalità. O per meglio dire, di invisibilità. Le condizioni economiche, il contesto ambientale, la sofferenza provocata dalla degenerazione urbanistica e dalle diseguaglianze, ricoprono un ruolo determinante in qualsiasi trattato di psicologia sociale. La loro considerazione però, ostacolerebbe la supremazia del Mercato. Ed è forse proprio questa la vera follia della salute mentale.

                  

     

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