Addio a Polifemo-Pillon, addio alle sirene dell’Umbria. Sulla pillola abortiva Ru486, l’Italia resiste alla tentazione dell’oscurantismo e afferma di voler essere un Paese europeo del ventunesimo secolo. La settimana scorsa il ministro della Salute, Roberto Speranza, ha annunciato sui social media che saranno presto emanate nuove linee guida sull’interruzione volontaria di gravidanza per via farmacologica.

I cambiamenti principali sono due: la Ru486 (attenzione: non è la “pillola del giorno dopo”, che va presa entro 5 giorni dal rapporto a rischio) si potrà somministrare entro le prime nove settimane di amenorrea (l’assenza delle mestruazioni) e in day-hospital. In questo modo il nostro Paese si adegua alla prassi più diffusa nel resto d’Europa: “È un passo avanti importante nel pieno rispetto della 194 che è e resta una legge di civiltà”, commenta Speranza.

Le precedenti linee d’indirizzo – risalenti al 2010 – permettevano di prescrivere il farmaco solo entro 7 settimane e raccomandavano un ricovero di tre giorni. Sul secondo punto, però, le Regioni hanno sempre avuto libertà di scelta, perciò alcune avevano già introdotto il regime di day hospital. 

 

La questione è tornata d’attualità perché a giugno la giunta di centrodestra della Regione Umbria, basandosi sulle linee guida di 10 anni fa, aveva ripristinato l’obbligo di ricovero per tre giorni. Per risolvere la questione Speranza ha quindi chiesto al Consiglio superiore di sanità un parere aggiornato, sulla base del quale sono state poi elaborate le nuove linee d’indirizzo. In particolare, il Css ha rilevato “che non esistono evidenze scientifiche che sconsiglino la somministrazione dei farmaci alla nona settimana”.

L’Italia cancella così le due condizioni che finora hanno reso l’interruzione di gravidanza per via farmacologica più complessa nel nostro Paese che nel resto dell’Ue. In effetti, siamo sempre stati in ritardo: da noi la pillola abortiva è diventata legale soltanto nel 2009, mentre in Francia è realtà dal 1988 e in Gran Bretagna dal 1990.

Il perché è facile da intuire: basta prestare orecchio ai rigurgiti reazionari prodotti dalla destra. Giorgia Meloni parla delle nuove linee guida come di “un balzo indietro”, perché “trasformare l’aborto farmacologico in una pratica casalinga fai da te significa prima di tutto abbandonare a loro stesse le donne che ricorrono alla somministrazione della pillola, senza controllo medico, senza sostegno psicologico e far vivere in solitudine un processo difficile e pericoloso”.

Come sempre, la leader di Fratelli d’Italia dimostra una notevole capacità affabulatoria, ma (come sempre) racconta balle. Gli accorgimenti sono previsti, eccome. Il Css raccomanda di non somministrare la Ru486 alle donne che soffrono di ansia, che hanno una soglia del dolore molto bassa o che vivono in condizioni igieniche precarie: in questi casi resta consigliato l’aborto chirurgico. Inoltre, le pazienti potranno tornare a casa dopo mezz’ora dall’assunzione, ma solo se non daranno segni di essere in uno stato d’ansia e solo se a casa non saranno sole.

Infine, dopo due settimane dovranno sottoporsi a una visita di controllo, durante la quale sarà “offerta una consulenza sulla contraccezione”.

Per il resto, il mondo cattolico non ha perso l’occasione di stigmatizzare il nuovo intervento normativo con argomenti pretestuosi. Quasi tutte le associazioni pro-life (titolo evidentemente auto-attribuito) affermano che l’aborto farmacologico è più rischioso di quello chirurgico. Lo dicono perché sperano di scoraggiare le donne più titubanti, ma raccontano una bugia: secondo i dati del ministero della Salute, nel 96,9% dei casi l’aborto farmacologico non dà complicazioni, un dato per altro in linea con “quanto rilevato in altri Paesi e quanto riportato in letteratura”.

Possiamo quindi affermare di essere finalmente un Paese all’avanguardia su questo tema così decisivo per l’autodeterminazione delle donne? Purtroppo no. Il passo avanti annunciato da Speranza non risolve tutti i problemi. Resta ancora da affrontare l’ostacolo più grave all’esercizio della libertà di aborto in Italia: il numero esorbitante di medici obiettori di coscienza.

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