Dal lavoro forzato sui pescherecci nel Sudest asiatico ai miseri salari percepiti nelle piantagioni indiane di tè fino alla fame di cui soffrono i lavoratori delle aziende vitivinicole del Sudafrica: violazioni dei diritti umani e dei lavoratori che riforniscono i grandi supermercati, cominciando dalle lunghe filiere di produzione e alimentando la spirale della disuguaglianza.

 

I numeri: nell’Unione europea, solo dieci supermercati gestiscono la metà di tutte le vendite al dettaglio di prodotti alimentari; nel mondo, solo cinquanta industrie alimentari controllano la metà di tutte le vendite di prodotti alimentari; quattro imprese detengono il 70 per cento dei guadagni del commercio globale di derrate agricole e tre imperi industriali dominano quasi il 60 per cento del volume di affari relativo al commercio delle sementi e dei prodotti chimici per l’agricoltura.

 

 

E, dopo aver conquistato l’intero mercato dei Paesi ricchi, questo sistema ha monopolizzato, pure, i Paesi a medio reddito, dall’America Latina al Sudest asiatico, passando per alcune zone dell’Africa settentrionale e subsahariana. Essendo l’anello finale della filiera, i supermercati sono divenuti gli arbitri indiscussi del commercio agroalimentare globale: stabiliscono precisi standard qualitativi, dettano i prezzi e le politiche di gestione delle scorte che soddisfano (solo) i consumatori. Pesando in maniera sleale sui fornitori: ne indeboliscono il potere contrattuale a causa dei tagli ai fondi pubblici e dell’eliminazione dei dazi che tutelavano le agricolture nazionali.

 

E, sul fronte dei lavoratori, avendo introdotto, per legge, un salario minimo, si è registrato un declino dell’adesione ai sindacati e della contrattazione collettiva. Ciò aumentando il rischio di violazione dei diritti umani: perché lavoratori sfruttati, a loro volta potrebbero ricorrere al lavoro minorile o alla manodopera femminile in attività informali utilizzando la formula dei salari a cottimo.

 

In Italia, per esempio, il 75 per cento delle lavoratrici delle aziende ortofrutticole intervistate nel dossier Maturi per il cambiamento, redatto da Oxfam, ha dichiarato che aveva ridotto il numero di pasti almeno una volta nel corso del mese precedente perché il nucleo famigliare non poteva permettersi di acquistare cibo sufficiente. Dall’altro capo della filiera, l’amministratore delegato più pagato di un supermercato britannico guadagna la stessa cifra che una vendemmiatrice in un’azienda agricola del Sudafrica riceve in tutta la vita.

 

Questa crescente disparità e il conseguente squilibrio distributivo nelle filiere di approvvigionamento dei supermercati hanno avuto, come risultato, nel 2015 per esempio, che per prodotti come il succo d’arancia prodotto in Brasile, i fagiolini del Kenya, il tè indiani, i gamberetti vietnamiti e il tonno in scatola thailandese, la percentuale sul prezzo finale, spettante ai piccoli agricoltori o ai lavoratori, fosse inferiore al 5 per cento.

 

Di più: la necessità di fronteggiare la concorrenza dei discount che continuano a conquistare fette importanti di mercato applicando politiche di costante riduzione dei prezzi al consumo, potrebbe essere l’antefatto per una nuova e più spietata era di ribassi dei costi di produzione, peggiorando (manco a dirlo) la situazione attuale che già conta settecentottanta milioni di persone nel mondo le quali vivono in povertà pur lavorando. “Neppure il salario minimo sarebbe sufficiente, figuriamoci le paghe da fame che ci danno”, si lamenta nel dossier, un lavoratore impiegato in un’azienda in Ecuador, fornitrice di Lid.

 

D’altronde, si legge nel dossier di Oxfam, nessuna delle aziende europee analizzate è stata in grado di dimostrare i risultati dei propri meccanismi di denuncia e reclamo, di avere una piena tracciabilità degli ingredienti chiave delle loro filiere ma, soprattutto, di monitorare il livello salariale, di reddito e di disuguaglianza di genere o di valutare l’impatto delle pratiche commerciali sui diritti umani degli agricoltori.

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