di Maurizio Coletti

“Per affrontare il problema droga bisogna sedersi intorno ad un tavolo con chi lavora in questo campo e fare una legge vera che non sia ispirata da condizionamenti ideologici” (fonte Aduc). Così afferma don Pierino Gelmini, fondatore della “Comunità Incontro” e convinto sostenitore delle tesi più destrorse in campo di droghe. Alle sue apoteosiche manifestazioni, con centinaia di ospiti delle sue strutture e contorno di genitori, non mancano mai gli esponenti del centrodestra: Fini, Giovanardi, Casini, Gasparri, tanto per fare dei nomi, sono venuti alla corte del celebre fratello di Padre Eligio (quello dei balletti rosa, ricordate?) a sventolare i vessilli della politica “antidroga” più pura e dura. Finanche Berlusconi è stato, moderatamente, sostenitore di Gelmini. Il suo Governo Berlusconi è stato, in questo senso, limpido sostenitore di quelle scelte che davvero dovrebbero differenziare la destra dalla sinistra. La frase di Gelmini citata all’inizio contiene almeno due elementi molto chiari; che, comunque, è opportuno richiamare. Chiedere una legge mondata da ideologie da parte di questo individuo è paradossale ed ipocrita. Durante gli anni passati e nelle sue manifestazioni si sono sentite le peggiori bestialità e si è inneggiato all’approccio del “simply, say no”. Si sono presentati, sono stati applauditi, hanno fatto campagna elettorale tutti coloro che vedono nella droga il demonio, il male quasi assoluto. Quelli che, con Gelmini in testa, starnazzano di valori e di tunnel senza uscita, quelli che richiamano ad ogni piè sospinto la famiglia, il peccato, la necessità di redenzione e di salvazione. Ma, a parte ogni ipocrisia, è una parte della frase citata che ci permette di risalire alla visione delle droghe e dei drogati: il richiamo all’esperienza di chi lavora nel campo. Che sarebbero gli operatori e le strutture di pubblico e privato-sociale che si prendono carico dei soggetti dipendenti da sostanze.

Come a dire: la legge deve essere fatta da quelli che si intendono di cure (e, magari, di salvazioni) perché chi assume sostanze è sempre da curare, da accogliere, da riportare sulla retta via. Qualsiasi sia la sostanza, qualsiasi sia il tipo, la frequenza, l’intensità del consumo, esso è sempre sbagliato; il soggetto deve essere additato come “imperfetto”, sbagliato, al massimo bisognoso di pura carità cristiana per uscire migliorato e finalmente redento. Un problema di imperfezione dell’animo, dunque, sempre e comunque. A questo pilastro se ne aggiunge un altro: le droghe (illegali) sono tutte uguali. Che è, poi, il capolavoro della legge Fini-Giovanardi. Ecco, quindi, la ragione per cui a scrivere la legge dovrebbero essere i curatori d’anime (meglio religiosi) od, al massimo, quelli che si occupano di patologie.

Cosa deve opporre la sinistra a questa concezione? Innanzitutto, una visione liberale e tollerante dei comportamenti umani. Si può non essere d’accordo sul consumo di droghe, ma non si deve considerarlo un reato. Questo caposaldo di una visione antagonista a quella della destra rende simile la discussione sulle risposte e sulle leggi a quelle (tante) questioni in ballo che di recente rischiano di aprire un fossato tra credenti e non credenti: pacs, omosessualità, diritto ad una morte dignitosa, tanto per fare qualche esempio. Il consumo di sostanze, in sé, deve essere sottratto alla mannaia dell’approccio penale. Qualche milione di italiani ha consumato e consuma regolarmente sostanze illegali e sarebbe veramente, questo sì, criminale metterli tutti fuorilegge. Un approccio di sinistra non può che partire da qui: dalla depenalizzazione dei consumi. Come tutte le questioni dei diritti, è indispensabile tracciare qualche confine: sto pensando al problema dei minorenni e del margine, a volte troppo sottile, tra detenzione ad uso personale e spaccio. Vi sono, tuttavia, spazi e proposte per avanzare speditamente in questa direzione.

Altro discorso si deve fare quando il consumo diviene problematico, sia in termini di quantità e frequenza, sia in termini di conseguenze sulla salute e sulla condizione sociale dei soggetti. Qui l’approccio deve essere quello incardinato sulla salute pubblica. L’obiettivo dovrebbe essere quello di ridurre rischi e condizioni patologiche. L’astinenza può essere uno degli obiettivi, ma non il solo. Qualche decennio di esperienze cliniche dimostra che condizioni pregresse, uso di sostanze e sue conseguenze si assommano in un coacervo assai pesante, verso il quale si deve applicare l’idea di cure lunghe ed articolate, non basate solo sulla somministrazione di farmaci, ma che si snodino attraverso percorsi differenziati, con una robusta presa in carico sia psicologica, che sociale. Percorsi “ a rete”, collegati ed interagenti tra di loro, al fine di coprire al meglio possibile i bisogni del consumatore problematico. Alla base di tutto questo approccio, c’è evidentemente la capacità di discriminare il consumatore dal consumatore problematico. Non è che verso la prima tipologia si debba stare completamente passivi: la strategia dell’informazione mirata ed efficace è sempre valida ed è utile quando, in determinati contesti, chi usa può non sapere cosa usa. Anche l’informazione sulle droghe può essere di destra o di sinistra.

È di destra quando cerca di terrorizzare, quando si fa demagogica, quando mette sullo stesso piano cose, situazioni, sostanze e contesti differenti. È di sinistra quando, per esempio, cerca di mettere un determinato soggetto di fronte alla scelta di consumare o meno, ma lo mette in condizioni di conoscere la sostanza che vuole consumare; la pratica del “pill test” (mini laboratori che offrono a chi ci si rivolge informazioni utili a capire se la sostanza sia pura o tagliata, se la pillola sia veramente extasi o caffeina) di fronte alle discoteche ed ai rave si basa su questo assunto. Ma, per il momento, è proibita per legge: sarebbe, dicono, una sorta di incoraggiamento o, come minimo, un’insufficiente azione di scoraggiamento. In questo campo, è vero, gli operatori sono esperti e qualificati. Hanno fatto sforzi enormi per adeguare saperi e pratiche ai fenomeni in mutamento; hanno messo (quasi tutti) al centro le evidente scientifiche e le buone pratiche.
Così, una politica di sinistra sulle droghe dovrebbe saper discriminare il terreno dei diritti da quello del sistema degli interventi sulle situazioni problematiche.

Sui diritti occorre un certo coraggio, visti i tempi che corrono. I teo-con, i teo-dem, i teo-lab, sono alla vista e sono indispensabili chiarezza e determinazione. Sul terreno degli interventi, è necessario prendere coscienza dello stato di crisi profonda di risorse in cui versano centri e servizi ed innovare procedure, organizzazioni e finanziamenti. Il settore degli interventi sulle dipendenze patologiche è tra quelli che più ha sofferto del concetto “aziendale” della salute, lì dove sono perdenti le aree deboli (soggetti e centri di trattamento, ambedue deboli) e restano terreno di scorribande per tagli indiscriminati da parte di quelli (i direttori generali delle Asl) che hanno un mandato unico nel risparmio a tutti i costi e potere infinito ed incontrastato in un campo così delicato come quello della salute.

Ultima considerazione: Piero Fassino “annette” i temi delle droghe tra quelli “eticamente sensibili” (testualmente, dalla sua relazione all’ultimo Consiglio nazionale dei DS: ... "appare necessario dare soluzioni normative adeguate a temi non meno cruciali quali il testamento biologico, l’accanimento terapeutico, la modifica della Fini-Giovanardi sulle tossicodipendenze, la ricerca sulle cellule staminali... proprio la delicatezza e la complessità di temi che investono la vita e la morte, il destino della specie umana, la generazione degli individui, la sessualità, la famiglia, il rapporto tra scienza e natura, impongono la via del confronto, del dialogo ravvicinato, della mediazione alta come le sole strade per produrre soluzioni mature e condivise").
Prendiamo nota che non si parla più dell’abrogazione della legge del centrodestra, ma si ipotizza una sua modificazione, attraverso un (probabilmente eterno) processo di mediazione con chi ha “sensibilità diverse”. Preoccupa assai, infine, l’abbandono dell’idea di misure pragmatiche, concrete, basate sui concetti già rammentati di “salute pubblica”. La mediazione (talvolta sacrosanta, tal'altra basata solo sui tatticismi) può essere una soluzione priva di un’uscita dignitosa.

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