Sono almeno diecimila le persone escluse dall’accoglienza istituzionale, tra richiedenti e titolari di protezione internazionale e umanitaria, costretti a vivere in condizioni di estrema vulnerabilità. Alle frontiere, negli spazi aperti, negli edifici occupati nelle città, nei ghetti delle aree rurali, sono relegati a una marginalità che li esclude dall’accesso ai beni essenziali e all’assistenza sanitaria.

 

 

Nonostante i tentativi del governo di attuare un sistema unico, promuovendo il modello dell’accoglienza diffusa, e l’ampliamento dello stesso, la carenza di posti non è solo cronica ma, anche, dovuta all’aumento di richieste di asilo e al basso livello di turn over delle presenze a causa dei tempi necessari per l’esame delle domande. E, stando a quanto si legge nel report Fuori campo, redatto da Medici senza frontiere, è pure conseguenza dell’aumento del numero di rinvii di richiedenti asilo in Italia provenienti da altri paesi dell’Unione europea ai sensi del Regolamento di Dublino e del fallimento della procedura di ricollocamento creata dal Consiglio europeo nel 2015.

 

A causa della sofferenza strutturale in cui versa il sistema di accoglienza, quindi, migranti sbarcati da pochi giorni che cercano di raggiungere un altro stato membro dove presentare una richiesta di protezione nonostante l’identificazione negli hot spot, richiedenti asilo ai quali è stata revocata l’accoglienza, migranti in uscita dai centri con un diniego della protezione nelle fasi di ricorso, titolari di protezione internazionale o umanitaria in assenza di inclusione sociale, negli ultimi due anni, si sono rifugiati all’interno di abitazioni, pubbliche o private, occupandole abusivamente.

 

Del tutto autogestite, le occupazioni, nate come azioni illegali, sono state regolarizzate in seguito sia con il coinvolgimento di enti privati sia con l’intervento dei comuni e delle regioni. Ma il modello fondato sull’autorecupero di immobili inutilizzati esclude, ovviamente, la possibilità di fissarvi una residenza e la altrettanto ovvia, se pur inaccettabile, difficoltà di iscrizione al Sistema Sanitario Nazionale.

 

Un ostacolo che penalizza, anche, richiedenti asilo e rifugiati sistemati – si fa per dire – negli insediamenti informali che, sempre più spesso, per effetto degli sgomberi forzati, si disperdono in aree sempre più periferiche e luoghi sempre più nascosti con contatti sempre più limitati con i servizi territoriali, compresi quelli sanitari. In mancanza di una inclusione sociale compiuta, richiedenti asilo e rifugiati tentano di attraversare le frontiere, sempre meno permeabili, che nell’ultimo anno, sono diventate fulcri fissi di marginalità.

 

E, giustificandole come pratiche per prevenire problemi di ordine pubblico e utili a evitare che l’alta concentrazione di migranti in quegli insediamenti spontanei possa dare luogo a emergenze igienico-sanitarie, i trasferimenti forzati a cui sono sottoposti alimentano una circolarità rinominata ‘gioco dell’oca’.

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