di Tania Careddu

In un paese nel quale le statistiche sui giovani, di anno in anno, evidenziano un progressivo posticipo dell’età di uscita dal nucleo famigliare di origine, “diciotto anni è troppo presto per cavarsela da soli” per i neomaggiorenni in dimissione dalle realtà di accoglienza per minori, sui quali pesa, oltretutto, uno svantaggio sociale, formativo e occupazionale.

Travagliati percorsi personali e famigliari complicano ulteriormente la transizione, forzata e repentina, verso l’età adulta, con la pretesa di un’autonomia obbligata sulla quale lo Stato italiano declina la sua responsabilità. Privati prematuramente della cura e dell’assistenza, l’indipendenza lavorativa, economica e relazionale di questi ragazzi non è compatibile con il loro percorso di crescita e di maturazione graduale, spesso caratterizzato da molte interruzioni e da tempi complessivamente più lunghi rispetto a quello dei coetanei che hanno vissuto in famiglia (per i quali, posticipare il momento di uscita da casa, è una scelta).

La precarietà a livello economico e l’allontanarsi da un ambiente e da un territorio ormai conosciuto condizionano, oltre che la vita pratica materiale quotidiana, anche le relazioni con i propri coetanei meno svantaggiati fino al progressivo estremo isolamento. E la solitudine, non soltanto come una condizione che pervade la vita in autonomia dopo un lungo tempo trascorso in un contesto denso di rapporti ma vissuta come una sensazione netta di essersi separati dagli affetti che fino a poco prima si erano occupati di loro, potrebbe incidere sull’autostima e sulla riuscita di ciascuno.

Incertezza e fatica rendono complicato spiccare il volo, anche relativamente all’inseguimento delle proprie inclinazioni e attitudini, ai quei tremila giovani che, stando a quanto si legge nel Report italiano della ricerca ‘Una risposta ai care leavers: occupabilità e accesso a un lavoro dignitoso’, redatto da Sos Villaggi dei Bambini Italia, ogni anno si trovano ad affrontare il passaggio a una vita indipendente, considerando pure che i due terzi di loro non rientrano nel nucleo famigliare originario (e quando vi fanno ritorno, l’approccio non è meno complicato, aggiungendosi una condizione di conflittualità).

Ma, purtroppo, non esiste, a livello nazionale, un accompagnamento specifico e garantito per questi giovani, eccezion fatta per la Sardegna, unica nel panorama italiano, ad aver introdotto una legge regionale ad hoc per definire “un programma di accompagnamento personalizzato volto a consentire ai giovani dimessi dalle comunità residenziali per minori di affrontare con successo il passaggio dal contesto protetto all’autonomia e di completare il proprio percorso formativo”. Con l’auspicio che l’esempio rimanga il miglior insegnamento.

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