di Tania Careddu

Nel 2015, l’Italia ha destinato alla cooperazione allo sviluppo quasi quattro miliardi di euro per finanziare, appunto, iniziative volte a sviluppare il potenziale delle risorse umane e migliorare le condizioni di vita dei paesi beneficiari. La legge italiana la definisce come “parte integrante e qualificante della politica estera” e regola i trasferimenti di risorse alle nazioni del mondo che non hanno raggiunto determinati standard economici, sociali e di sviluppo.

Ottenendo, per tutto ciò, il dodicesimo posto fra i quindici principali donatori mondiali e con l’obiettivo di destinare lo 0,7 per cento annuo del proprio reddito nazionale lordo entro il 2030, secondo gli obiettivi ufficiali stabiliti dall’OCSE e riportati nel minidossier Cooperazione Italia, redatto da Openpolis, in collaborazione con Oxfam.

E anche se la gestione del budget totale risulta ancora troppo frammentata tra i vari ministeri, i fondi sono diretti a intervenire su: istruzione, salute, approvvigionamento idrico e servizi igienico-sanitari. Comprendono la messa a punto di programmi per la pubblica amministrazione e la società civile, per le infrastrutture economiche coinvolgendo settori quali l’energia, le banche e i servizi finanziari e per il business, i trasporti.

Nel documento di programmazione datato 2015-2017 sono state fissate (anche) le attività a cui dare una precedenza negli investimenti. Spiccano l’agricoltura, l’istruzione e la salute. E, però, verificando la distribuzione dei fondi stanziati nel 2015 emerge sia che a queste attività (prioritarie) è andato, in totale, il 19,30 per cento delle risorse, rendendo il livello di frammentazione degli aiuti allo sviluppo ancora troppo elevato sia che le voci, che non hanno nessun rilievo nella programmazione ufficiale, assorbono parti consistenti degli stanziamenti.

Compare poi la voce ‘rifugiati nel paese donatore’, che si riferisce a risorse che non solo non arrivano nei paesi da aiutare dal punto di vista economico (potrebbero contribuire a intervenire sulle cause strutturali all’origine dei flussi migratori)  ma anzi, non escono dallo Stato (Italia) che mette a disposizione i fondi, sottraendo così risorse ad attività mirate alla crescita di paesi ancora molto svantaggiati.

Pur riconoscendo l’importante ruolo che il Belpaese svolge nel rispondere ai bisogni delle persone in arrivo, questa pratica di contabilizzazione rischia di deviare ingenti somme di denaro destinate alla lotta alla povertà nei paesi più indigenti. Insomma, i conti non tornano: quello che è un aspetto di politica interna viene addebitato all’esterno e la quantità di risorse che rimane nei confini nazionali, negli ultimi anni, arriva a toccare quote sempre più consistenti, fino a sfiorare i novecentosessanta milioni nel 2015.

E, così facendo, l’Italia si aggiudica il quinto posto nella rosa dei paesi OCSE, per spesa, in termini assoluti, destinata alla gestione dei rifugiati. Mancano, oltretutto, dettagli nella rendicontazione cosicché è impossibile rintracciare particolari sul tipo di progetti (eventualmente) realizzati o informazioni sulle amministrazioni che li finanziano. Bell’affare.

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