di Tania Careddu

Altro che choosy. Inchiodati a stereotipi negativi, penalizzanti, castranti. Alle retoriche dei fannulloni e dei troppo viziati. Pigri e rinunciatari. Certo, negare le loro difficoltà di rapporto con il mondo del lavoro, la dimensione della disoccupazione ufficiale e il fenomeno dei Neet, sarebbe una forzatura. Tuttavia (e nonostante questo), i Millennials, undici milioni e rotti ragazzi italiani, nati fra gli anni ottanta e il duemila, di cui cinque milioni e mezzo vivono con i genitori e si sposano sempre meno, anche quando vanno via di casa sprigionano, nella minuzia della realtà quotidiana, energie psichiche inattese e vitali per il nostro Paese.

Rilanciano una spiccata adattabilità, con una propensione ad accettare lavori di contenuto inferiore alla propria qualificazione e con la tendenza a lasciarsi coinvolgere intensamente dall’attività lavorativa che svolgono. Qualunque sia, anche da quella più lontana dalle loro aspettative, persino reddituali.

Nient’affatto pretenziosi. Se si pensa, secondo quanto si legge nella ricerca del Censis, Vita da Millennials: web, new media, start up e molto altro, che un milione di loro dichiara di aver cambiato almeno due lavori in un anno; più di un milione e mezzo, nell’ultimo anno, ha lavorato con contratti di durata inferiore a un mese; quattro milioni e mezzo all’incirca hanno fatto esperienze di stage non retribuiti; più di un milione dichiara di aver lavorato, negli ultimi dodici mesi, al nero; quasi due milioni hanno fatto lavoretti per guadagnare qualcosa.

Un’adattabilità alle condizioni lavorative che svela un rapporto intenso con il lavoro, in un investimento di tempo ed energie: lavorano oltre l’orario formale senza ricevere lo straordinario pagato, di notte e durante i weekend. A distanza, fuori dal posto di lavoro. Sempre connessi in un “tempo di lavoro che fagocita quello di vita”. Disponibili sempre, ovunque e comunque. Aggiornandosi e rapportandosi di continuo. Anche per potersi evolvere professionalmente.

Pure di fronte a una precarietà diffusa che non lascerebbe ben sperare. Alla quale, invece, contrappongono una vitalità imprenditoriale: nel commercio, nei servizi di alloggio e ristorazione, nelle costruzioni. Più intraprendenti dei coetanei europei, anche dei tanto competitivi tedeschi (novecentoquarantuno mila versus cinquecentoventotto mila), soprattutto a Milano, Roma e Torino.

Strumento e luogo d’espressione di eccellenza della loro potenza creativa e innovativa: il web. Che utilizzano per cercare lavoro, rappresentando un’evidente evoluzione sociale perché forza l’orizzonte ristretto e inuguale dell’informalità relazionale, oppure nei comportamenti quotidiani.
I quali sono orientati alla sostanza e al contenuto degli stili di vita: sobri, distanti dall’approccio di consumo compulsivo, tipico dei Baby boomers.

Dal crowfunding al couchsurfing, ridefiniscono intensità e matrice del consumo, più maturo e finalizzato a una più spiccata attenzione alla qualità (approccio destinato a marcare la direzione della prossima ripresa economica). Della vita di questa generazione globale che si sposta regolarmente in bicicletta e fa uso del car sharing.

Attenti al cibo, in un rapporto che coinvolge diverse dimensioni: da quella identitaria a quella di socialità, in un originale mixage tra radicamento e sperimentazione. E ci investono culturalmente: dalla fioritura di blog a piattaforme web dedicate all’enogastronomia, dalla miriade di start up nel settore della ristorazione al ritorno all’agricoltura.

Una vocazione a ritornare: sono “pendolari globali”, figli dei voli low coast con una percezione attutita dei confini fisici e sociali del mondo, vanno all’estero per un movimento verso la relazionalità, ma poi tornano nei luoghi di provenienza.

Più spesso volenti che nolenti. Per avviare iniziative imprenditoriali nei luoghi natìi, sovente bollati come depressi e privi di capacità innovativa. Perché i Millennials sono convinti che il futuro vada costruito a livello minuto, con una spinta al cambiamento.

Di loro piace la certezza che non tutto è stato già detto e già stato fatto. Che lo sviluppo non debba andare verso un eccesso di individualismo, arrivando a una moltitudine di solitudini. Ma debba camminare attraverso una crescita delle dinamiche di relazionalità e di comunità.

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