di Elena G.Polidori

E’ un’angoscia sottile, per lo più inespressa, quella che ancora oggi si diffonde piano tra i fiorentini ogni volta che la pioggia batte ininterrottamente per giorni e ti sembra un castigo di Dio senza fine. C’è ancora chi, in giorni come quelli, si alza di notte e raggiunge uno dei tanti ponti di Firenze per controllare che, sotto, il fiume ribollente e limaccioso non sia salito oltre il limite di guardia segnato bene in vista ai lati delle sponde. E non c’è mai una volta che l’Arno ti faccia tornare indietro verso casa senza averti trasmesso il timore di risvegliati, la mattina, con quella medesima acqua verdastra che scorre veloce sotto le tue finestre portandosi via tutto ciò che hai. E se possibile anche di più. Era il 4 novembre del 1966, quando l’alba mostrò una Firenze livida di acqua, di fango e di nafta, devastata fin nel suo cuore più antico e medioevale, con la gente sui tetti che urlava e i soccorsi che non riuscivano ad arrivare. Sono passati quarant’anni, eppure l’Arno potrebbe sommergerla ancora, con conseguenze ben peggiori di allora. Un’alluvione come quella del ’66 rappresenterebbe un costo sconvolgente per il sistema-Paese: trenta miliardi di euro. Una intera Finanziaria, insomma. In tanti anni, però, si è fatto ancora troppo poco per impedire che accada di nuovo. In realtà, ciò che provocò quella devastazione fu un combinato disposto di circostanze che difficilmente si potrebbero ripresentare tutte insieme con la medesima intensità. Piovve dalle cinque del 3 novembre e andò avanti per 18 ore. Caddero venti centimetri di pioggia su 9 mila chilometri quadrati e di questi 1.500 furono inondati. In ventiquattr'ore, sotto Ponte Vecchio, passarono 400 milioni di metri cubi d'acqua e 70 si riversarono in città. Una catastrofe straordinaria. Straordinaria soprattutto per il cuore antico della città, per la strettoia di Ponte Vecchio, capace allora di smaltire solo fino a 2.500 metri cubi d'acqua al secondo. Quella passerella sull'acqua che piaceva a Hitler e per questo fu risparmiata dalla distruzione nazista dei ponti fiorentini nell'agosto 1944, riuscì a contenerne 3.000. Ma la foga del fiume ne riversò 4.100 per dodici ore: roba da portata di un grande fiume indiano. Una pressione che lasciò in città 600 mila metri cubi di fango misti alla nafta dei depositi di carburante saltati nel disastro. Quella massa d’acqua arrivò di colpo. E questo perché la diga di Levane, a nord di Firenze, dopo quei giorni di pioggia aveva raggiunto la saturazione; c’era il rischio concreto di un crollo. I responsabili del bacino idrico decisero di aprire la diga. Ma anziché calibrarne il flusso, spalancarono contemporaneamente tutte le aperture si scarico. Si creò un’onda alta due metri che non lasciò via di scampo e si scaricò con grande violenza sulla città. La natura matrigna e l’imperizia umana combinarono un disastro.

Ma il pericolo, dopo quarant’anni, è uguale ad allora. Tutti i comuni della provincia di Firenze restano classificati ad alto rischio alluvioni e frane. L' 89% della popolazione ha abitazioni in aree di rischio idrogeologico, nella metà dei casi proprio in queste zone sono nati interi nuovi quartieri, il 70% ha lasciato costruire in zone pericolose le fabbriche a ridosso d' Arno. Case e fabbriche intorno al fiume sono assai più in pericolo rispetto al 1966. Semplicemente perché sono almeno decuplicate. Nella piana del fiume, lontano dalle colline, si produce sempre più alta moda, pelletterie e carta di grande qualità. Crescono i discount delle griffe più famose nel mondo. Numerosi insediamenti risalgono ai primi anni ' 70 e sono il frutto dei finanziamenti del dopo-alluvione: soldi investiti senza un piano economico né tantomeno urbanistico. Non si contano poi i cantieri della nuova Toscana degli anni Duemila. E della stessa nuova Firenze, immaginata dal Piano strutturale a ridosso del centro storico, da Novoli in giù. Una realtà che nel 1966 era solo un sogno da futurologi e oggi concretamente riguarda, nell'intero bacino, tre milioni di toscani. Un' espansione a macchia d' olio, nonostante ben 2.360 chilometri quadrati del bacino dell'Arno siano inseriti in una area di pericolosità valutata tra media e molto elevata. Secondo gli ambientalisti (ma l' allarme è fortemente contestato dal Comune di Firenze) anche l'area di Castello sarebbe "alluvionabile": lì dovrebbero sorgere entro dieci anni 1.500 abitazioni, la scuola marescialli dei carabinieri, forse la nuova sede della Provincia. Ecco perché un ipotetico ‘66-bis costerebbe quanto una Finanziaria. Ecco perché si dovrebbe fare di tutto per scongiurarlo. Ma non è così.

I fiorentini, si sa, hanno caratteri difficili e spigolosi. E nonostante Firenze sia stata più volte devastata, negli ultimi mille anni, da almeno 56 piene di cui 8 rovinose, la messa in sicurezza dell’Arno è rimasto sempre un problema quasi di secondo piano rispetto ad altri, come la viabilità cittadina, considerato sempre un’emergenza. Per i fiorentini, insomma, l’Arno è sempre "un torrente con ambizioni di fiume, capace di aumentare la propria portata fino a 16 mila volte di più; ma lo fa di rado". Però qualcosa si è fatto. Prima di tutto l'invaso di Bilancino nel Mugello, che con la sua diga controlla dal 2001 il regime del fiume Sieve, il maggior contribuente alle piene d' Arno ("Arno non cresce se Sieve non mesce"), tragico coprotagonista della piena di quarant'anni fa. Poi c' è il diverso regime delle dighe Enel nell' aretino, La Penna e Levane, oggi sottoposte a una "gestione attiva", ovvero vengono scolmate non appena la lunga catena di controllo segnala pericolo. Altro risultato: l'Arno è monitorato da un sensore di pioggia ogni otto chilometri. I dati sono distribuiti in rete e via radio e sono a disposizione di tutti: Autorità di bacino, Protezione civile, Regione, Comune e Province interessate. Il margine di previsione di una ipotetica catastrofe è prossimo alle 24 ore. Molto poco comunque, ma già un risultato.

Ma è dentro Firenze che molto lavoro resta ancora da fare, anche se si è provveduto all' innalzamento dei muri di sponda e all'abbassamento delle platee di Ponte Vecchio e Santa Trinita, cioè di quelle solide soglie di pietra che attraversano la larghezza dell'alveo sotto le arcate. Ponte Vecchio è passato da 2.500 a 3.500 metri cubi di portata al secondo. Il che significa che l’impatto di una portata d’acqua come quella del ’66 sarebbe ridotta di un terzo. Gli altri due terzi restano lì dove sono, in area allarme rosso. E comunque ogni cura ha il suo contraccolpo. Nel caso di un fiume che si contenga a monte, la piena si riverserà fatalmente a valle, quindi a Ovest di Firenze, in quella piana sempre più ricca di insediamenti e di fabbriche. Sarebbe nuovamente un disastro.

Il vero paradosso, come al solito, sta tutto nei palazzi della politica. Nella scorsa legislatura si è fatto un gran parlare di grandi opere, vistose e spettacolari quanto inutili come il ponte sullo stretto di Messina. Eppure l’opera più grande e necessaria come la messa in sicurezza del bacino dell’Arno non è mai stata neppure presa in considerazione. Nel ’66 a salvare Firenze arrivarono in migliaia, poi soprannominati “Angeli del fango” e tutti furono pronti a giurare che avrebbero fatto di tutto perché non accadesse mai più. Eppure, dopo quarant’anni, i fiorentini sono ancora in balia del fiume e dei suoi capricci. E chi dovrebbe intervenire continua a far finta di non sapere che una nuova alluvione li costringerebbe a sborsare trenta miliardi di euro da un giorno all’altro. Come una finanziaria. Comunque troppo rispetto a quanto di sarebbe potuto fare, nulla rispetto a quanto si potrebbe nuovamente perdere.


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