di Rosa Ana De Santis

A poca distanza dalla giornata dedicata al femminicidio, ai diritti di genere calpestati, all’invisibilità di tanta sudditanza delle donne agli uomini, le dichiarazioni e tutti i “dietro le quinte” delle baby prostitute dei Parioli, quartiere bene della Capitale, rappresentano una ferita gravissima per tutta la cultura femminile e per le donne italiane: madri e figlie. Il caso, ormai noto, assume connotati drammatici se si pensa che dietro c’era una madre connivente, un liceo, una situazione sociale non certo di estremo disagio e degrado.

Irrompe la normalità più insospettabile che diventa una coltre di banalizzazione assoluta del male più irrimediabile specie per un’adolescente: la vendita e l’alienazione del proprio stesso corpo per una merce qualsiasi, dalla scheda telefonica, alla cocaina, alle scarpe nuove.

Il caso rappresenta la punta di un iceberg, il titolo ad effetto di una prassi che vede ragazzine spigliate e disinibite sempre più diffusamente alle prese con il porno web e non solo, con prestazioni sessuali occasionali e spot che non hanno più a che vedere con le normali esplorazioni erotiche adolescenziali, questo il vero dato nuovo sociologico, ma con l’acquisto di un bene di consumo qualsiasi. Caso analogo a Salerno, l’inchiesta si apre alle città del Nord. Le ragazze lo fanno per comprare.

L’inchiesta giudiziaria fa il suo corso scavando nell’organizzazione degli appuntamenti, nella clientela delle prostitute minorenni, nell’analisi di sms e telefonate, nella morbosità degli sfruttatori. Quello che emerge è che le due ragazzine sono consapevoli della loro situazione e della gravità di essere minorenni mentre lavorano da prostitute. Non sono tenute a forza e non sono prive di capacità di auto comprensione. Il che, ovvio, non equivale a non vederle come vittime di questo squallore.

La vicenda illumina però uno spaccato della condizione femminile giovanile da cui non ci si può sottrarre, specie se in parallelo istituzioni e opinione pubblica si spendono per promuovere una tutela speciale per le donne e un impegno militante per l’adeguato riconoscimento della specificità e dei diritti di genere. Nel paese Italia, con complicità colpevole di vuoto televisivo, di inconsistenza dei modelli familiari e di un modello prostituivo barattato per un paradigma distorto di libertà e autonomia femminile, è stata allevata una generazione di Ruby.

L’accostamento di questa cronaca di prostituzione di figlie “normali” con le donne vittime di machismi violenti, arcaici e ancora persistenti nelle mura domestiche restituisce un quadro della condizione femminile sconfortante.

Difficile stabilire se siano le famiglie a dover ripartire e se questo sia possibile in una società ormai pervasa dal modello “Arcore” che prima della cronaca giudiziaria è stata diffuso attraverso fiction, tv, carriere pseudo artistiche e tutti i canali attraverso cui una nuova generazione è stata allevata negli ultimi venti anni in un brodo di sottocultura di genere.

Tutto questo mentre le famiglie hanno tenuto sempre di meno, mentre le mamme sono uscite sempre più fuori dalla vita di cura domestica, mentre la rivoluzione delle donne è stata trasferita da madri a figlie in una traduzione approssimativa del concetto di libertà che, va riconosciuto, si è rivelata deteriore e sminuente. Per questo il machismo berlusconiano è il male, ma per questa stessa ragione Ruby non è solo una vittima.

La responsabilità delle nuove donne è la stessa di queste ragazzine della Roma bene che, pur minorenni, sanno bene ciò che fanno e i motivi per cui lo fanno. La facilità con cui si diventa grandi almeno nell’apparenza delle forme e dei costumi sociali è il primo grande male dei giovani e se la violenza sulle donne è un problema degli uomini, la banalizzazione della rivoluzione femminile trasformata sovente in una rude mercificazione del corpo è stata, consapevoli o no, un’abdicazione delle madri.

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