di Giovanna Musilli

Siamo a ottobre inoltrato, è passato un mese dall’inizio dell’anno scolastico. La situazione delle scuole, quando va bene, è avere strutture fatiscenti, classi sovraffollate, insegnanti anziani, stanchi e demotivati. Quando va male, invece, gli insegnanti non ci sono proprio: quelli anziani sono andati in pensione sfruttando una delle ultime occasioni per farlo, le cattedre rimangono scoperte perché il provveditorato non nomina i supplenti annuali e i presidi non hanno soldi per nominare quelli temporanei. Il risultato è che l’insegnamento di alcune materie non è ancora iniziato, non solo nelle prime classi, ma anche nelle classi che dovranno affrontare l’esame di stato a fine anno.

E poi naturalmente ore di buco, uscite anticipate, entrate posticipate, docenti di altre materie e di altre sezioni costretti a lavorare di più per coprire le ore scoperte (ovviamente allo stesso stipendio). Per non parlare dei numerosi docenti (magari da vent’anni) che, come può accadere ogni anno, si sono ritrovati sovrannumerari, per via del fatto che non si sono riformate le classi nel proprio istituto.

Questo caso sfortunato comporta che si vada in DOP (dotazione organico provinciale), il che equivale ad essere mandati a caso in qualsiasi scuola della provincia di appartenenza. Questo peraltro mostra l’enorme conflitto d’interesse che in Italia coinvolge perfino la scuola: se le classi non si riformano, i docenti perdono il posto. Va da sé la conclusione.

Quanto ai supplenti temporanei, abilitati, spesso addottorati e adesso magari perfino vincitori di un (inutile) concorso, per la maggior parte sono disoccupati, a parte quei pochi fortunati che hanno ricevuto l’incarico dal CSA. Questo evento ormai quasi miracoloso ha coinvolto una minoranza di privilegiati con punteggi altissimi, cioè docenti che sono precari da molti anni. I cosiddetti giovani, che ormai hanno ampiamente superato i trent’anni, precari da “soli” sei o sette anni, possono solo sperare in qualche chiamata dei presidi più giudiziosi (che non vogliono lasciare classi scoperte).

Questo tipo di supplenze, quando va bene, arrivano a due o tre mesi, e spesso non sono neppure a orario pieno. Il che implica l’inevitabile atroce speranza che i titolari di cattedra si assentino il più possibile. Dopodiché, da un giorno a un altro, il benservito. E si torna a sperare in qualche altra assenza. Il culmine di tutto ciò è che le chiamate dei presidi arrivano via mail, spesso da un giorno all’altro: se per un caso sventurato non si controlla la posta elettronica proprio quel giorno, o se non si hanno colleghi solerti che passano la voce, si rischia di perdere la convocazione e di essere considerati rinunciatari.

Per non parlare della discrezionalità dei presidi nel permettere ai precari di accettare spezzoni orari: se si è già impegnati in un’altra scuola per poche ore, è normale aspirare al completamento dell’orario (e dello stipendio), ma il preside della scuola dove si è convocati può scegliere di non concederlo, soprattutto dopo il 31 gennaio. Di per sé lo stesso concetto di graduatoria d’istituto è sbagliato, perché affida alla fortuna la vita lavorativa dei precari. Ciascuno infatti sceglie venti scuole della provincia e ogni scuola elabora la propria graduatoria in base al punteggio della graduatoria permanente.

Questo meccanismo balordo rende possibile che insegnanti con punteggio inferiore lavorino prima e per più tempo rispetto a chi ha un punteggio più alto, semplicemente perché hanno scelto scuole con un tasso di assenteismo maggiore. Insomma, bisogna scegliere le scuole in cui i/le titolari sono più cagionevoli di salute, o in odore di maternità. Pena, la disoccupazione.

Sarebbe indubbiamente più corretto che tutte le scuole della provincia chiamassero da un’unica graduatoria, quella a esaurimento, per ordine di punteggio, lasciando ai precari la facoltà di accettare o rifiutare le supplenze. Il precario svogliato indisponibile a prendere il treno alle 6,30 del mattino per andare a lavorare, liberissimo di farlo, rinuncerà al punteggio e allo stipendio di quella supplenza, mentre quello più meritevole maturerà alla fine dell’anno un punteggio maggiore.

In questo modo davvero la graduatoria permanente rispecchierebbe il merito, oltre che l’età, come è giusto. Oggi invece per tutti quei precari che non ricevono l’incarico annuale dal provveditorato, ma solo quelli temporanei dei presidi, le possibilità di lavorare (e dunque di accumulare punti, oltre che di avere uno stipendio) sono totalmente casuali, affidate all’arbitrio assoluto della sorte.

Queste e molte altre sono le conseguenze della cosiddetta “riforma Gelmini” che ha falcidiato i precari tagliando otto miliardi, demotivato i docenti titolari costretti a lavorare di più per lo stesso (misero) stipendio e reso ancora più caotici i cicli scolastici. Non che prima fosse tanto meglio, per intenderci, ma evidentemente si può sempre peggiorare. Alemo però potremmo evitare il falso stupore nello scoprire che l’Italia è all’ultimo posto in Europa per capacità dei ragazzi di leggere e interpretare un testo.

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