di Rosa Ana De Santis

Si è picchiato da solo evidentemente. Si sarà ridotto da solo e volontariamente in condizioni drammatiche, con un corpo ridotto ad uno spettro pestato e piagato da ematomi e ferite. Questo, deve aver pensato il tribunale di Roma, deve essere capitato a Stefano Cucchi, figlio di una famiglia che non è parte di nessuna lobby, che non ha entrature e avvocati di grido, e per il quale dunque la giustizia è sostanzialmente poco più che una superstizione.

La sentenza sul caso di Stefano Cucchi è arrivata nel tardo pomeriggio di ieri, dopo ore di camera di consiglio. Condannati (ma solo per omicidio colposo) i sei medici imputati, assolti i tre infermieri e i tre agenti di Polizia Penitenziaria. Nell’aula di tribunale i presenti urlano “assassini” e invocano giustizia.

Davanti all’aula bunker di Rebibbia durante tutto il pomeriggio erano molte le persone che avevano espresso solidarietà alla famiglia Cucchi. Tra loro altre sorelle, madri e figlie in attesa di giustizia. Lucia Uva, la sorella di Giuseppe morto nel giugno 2008 dopo essere stato fermato dai carabinieri. E ancora Domenica Ferrulli, figlia di Michele, morto a 51 anni nel giugno 2011 a Milano appena fermato dai poliziotti. Grazia Serra nipote di Francesco Mastrogiovanni, morto nell'agosto 2009 dopo essere rimasto per 82 ore legato mani e piedi a un letto in un ospedale psichiatrico e Claudia Budroni, sorella di Dino, ucciso a luglio 2011 da un colpo di pistola durante un inseguimento con la Polizia.

Il processo per la morte del giovane Stefano Cucchi era iniziato nel marzo del 2011. Dodici gli imputati: 6 medici dell'ospedale 'Sandro Pertini', tre infermieri e 3 agenti di Polizia penitenziaria. Parti civili la famiglia Cucchi, il Comune di Roma e il Tribunale del malato.

Ilaria Cucchi parla alla stampa di pene ridicole e di una sentenza che calpesta la verità e la memoria del fratello. La madre dice che oggi è morto la seconda volta. Le foto impietose che la famiglia aveva deciso di mostrare, oltre ad un corpo affamato e assetato, ritraevano una schiena distrutta. Era violaceo e gonfio il volto di Stefano in aula di Tribunale la mattina del processo per direttissima  in cui lo vide suo padre.

Ai familiari era stato negato di vedere il figlio in ospedale pur stando in quelle condizioni gravissime, la morte era sopraggiunta lasciandolo in agonia sotto un lenzuolo dimenticato in una stanza, la lettera che aveva preparato per chiedere aiuto al suo referente di comunità non era mai stata inviata. Un accanimento violento e feroce che non viene riservato nemmeno ai detenuti nel 41bis.

Oggi viene data ragione a chi, come Giovanardi, addebitò senza decenza quella magrezza mortale alla droga di cui Stefano era caduto vittima anni prima. Peccato che prima dell’arresto, sono le foto segnaletiche a dirlo, non le supposizioni, il giovane Cucchi era in piedi, non era ridotto ad un corpo da lager, e non aveva ematomi.

Oggi lo Stato italiano dice che Stefano non l’hanno picchiato gli agenti di Polizia o che forse, leggeremo poi nelle motivazioni, non lo ha picchiato nessuno. C’era stato anche un rimpallo di responsabilità tra l’Arma dei Carabinieri - che aveva fermato il giovane - e la Penitenziaria che lo aveva preso poi in custodia nelle celle di Piazzale Clodio. Stefano arriva malmenato? Pare di no. Stefano è stato picchiato solo dopo o prima e dopo fino ad arrivare ad una frattura più grave delle altre che ne compromette la salute e la vita, grazie anche all’orrore commesso dai medici?

Oggi, questo è certo, c’è solo una metà della colpa. Di coloro che hanno mancato moralmente e deontologicamente al loro dovere di medici. Manca il nome di colui o coloro che hanno ridotto Stefano a un mantello di sangue. L’uniforme che lo restituisce picchiato agli occhi di un padre.

Non è, purtroppo, una sentenza che fa rumore nell’anestesia della giustizia italiana verso gli uomini in divisa. Nessuno riflette, pare, su quanto questa abitudine all’assoluzione plenaria delle uniformi sia un doppio danno per le Istituzioni e per la loro credibilità, soprattutto per quanti prestano il loro onorevole servizio con serietà e senso di giustizia.

Un reato nel nostro Paese non si paga con la vita, quale che sia il reato. E la tortura peraltro, quale quella subita dal giovane Stefano in vario modo, non esiste ancora nel corpo delle leggi, giacchè l’Italia rifiuta d’inserire nel suo codice penale il reato di tortura.

Chissà se Stefano non abbia detto una parola di troppo, se l’avversione per la sua vita problematica non abbia stimolato animi violenti e sicuri di impunità, chissà se essere un ragazzo come tanti, trovato di notte con la droga in tasca, non abbia assicurato salvacondotti alle mele marce che lo ha colpito e percosso e che oggi riscuotono un’assoluzione che suona come un insulto a chi crede, anche senza indossare una divisa, che la legge sia uguale per tutti.

A Stefano Cucchi è toccato in sorte lo stesso trattamento disumano e bestiale che subì in un parco a Federico Aldovrandi, un “pischello” si direbbe a Roma, morto sotto le luci di una volante accerchiato da divise violente. Come testimoniato da quelle foto mostrate da una madre coraggio. Le stesse con cui anche oggi Stefano continua a parlare ad occhi chiusi e a labbra serrate, tetro e viola dall’obitorio in cui è finito, come vengono a raccontare, senza un perché.




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