di Cinzia Frassi

Dal caso Fazio in poi, passando per fusioni societarie, alta finanza e calciopoli, arrivando al Principe Vittorio Emanuele di Savoia e alla neo battezzata raiopoli, l'utilizzo delle intercettazioni telefoniche ha provocato forti scossoni, capaci di far cadere parecchi dalle loro comode poltrone. E' indiscutibile, quindi, la loro utilità nel contribuire alla ricerca delle prove e alle indagini giudiziarie e non solo per i reati di criminalità organizzata o di terrorismo: i casi ricordati ne sono chiari esempi. E' altresì chiaro come la polemica attorno a questi efficaci strumenti di indagine si giochi interamente sul diritto alla privacy che s'incrocia con altri due: quello di cronaca e il conseguente diritto dei cittadini di essere informati. Tuttavia essa si gioca anche nel tentativo di chi ha una certa visibilità pubblica, per ragioni di politica, affari o altro, di distrarre l'opinione pubblica dal suo giudizio inappellabile, estraneo alle aule giudiziarie e spesso senza appello. Va da se che la "voce intercettata" ha sui lettori un impatto più forte di altri fatti. Pochi giorni fa, il Garante della privacy ha emesso un provvedimento generale in materia di giornalismo ed intercettazioni telefoniche, richiamando la stampa al rispetto delle norme del Codice di procedura penale, del Codice della privacy e del Codice deontologico dei giornalisti. In sostanza, le norme ci sono, tutto sta a rispettarle.

L'ultimo caso, quello del Principe, sembra ora aver scatenato reazioni allarmanti e forse un po' incontrollate nella misura. Dichiarazioni ed opinioni rimbalzano dalla tv ai giornali, dando aria a concitate polemiche e richieste di interventi urgenti destinati a guarirci dal virus terribile delle intercettazioni telefoniche, che alla luce di alcune considerazioni appaiono fuori luogo e forse anche un surplus non giustificabile. Qualcuno ha parlato addirittura di carcere per i giornalisti, altri semplicemente d'imbavagliarli.

Dall'arresto del Principe e dalla successiva pubblicazione del contenuto delle intercettazioni, gran parte della politica grida allo scandalo. Dopo la prima reazione a caldo, nella quale ventilava un intervento urgente in materia, il Ministro della giustizia Clemente Mastella appare ora più cauto e dichiara di non voler essere il ministro della censura. Peccato per quel decreto ereditato dal suo predecessore Castelli, che è entrato in vigore indisturbato il 18 giugno scorso e che mette in pericolo le fonti dell'informazione giudiziaria e quindi il diritto dei cittadini all'informazione sancito dall'art 21 della Costituzione.

Il decreto legislativo n. 106 del 20 febbraio 2006, riguardante "disposizioni in materia di riorganizzazione dell'ufficio del pubblico ministero", al suo art. 5 dispone che i rapporti con la stampa siano tenuti dal procuratore della Repubblica o da un magistrato dell'ufficio da lui delegato e impone il divieto di comportamenti che possano portare alla divulgazione di atti del procedimento coperti dal segreto, o di cui sia previsto il divieto di pubblicazione. I magistrati cui siano stati affidati procedimenti giudiziari non potranno rilasciare dichiarazioni o notizie agli organi di informazione "fino a che la sentenza non sia passata in giudicato". Va da se che il decreto prevede a carico del magistrato, accusato di non aver rispettato tali divieti, il procedimento disciplinare obbligatorio. Ma i cittadini possono aspettare i tempi lunghi della giustizia?

Il codice di procedura penale prevede che gli atti di indagine compiuti dal pubblico ministero o dalla polizia giudiziaria siano coperti dal segreto fino a quando l'indagato non ne possa avere conoscenza e, comunque, non oltre la chiusura delle indagini preliminari (art 329), o meglio non oltre l'avviso di conclusione delle indagini preliminari, quando viene depositato il fascicolo del pubblico ministero.
Il diritto di cronaca può quindi muoversi anche durante la fase istruttoria di un procedimento, senza che per questo possa delinearsi un illecito da parte della stampa nella pubblicazione di atti di indagine. Va da se che anche quel diritto troverebbe spazio ed efficacia nel momento della formulazione dell'imputazione e nell'eventualità di un rinvio a giudizio. Questo perché purtroppo, intercettazioni o meno, la cronaca giudiziaria ha portato sulle pagine dei giornali vicende gravi, se confermate nelle apposite sedi, come quelle relative all'alta finanza, a scalate truccate e all'ipotetica responsabilità del Presidente della Banca d'Italia Fazio. Questo ha avuto un impatto molto forte sull'opinione pubblica e, come conseguenza, il dispiegarsi di quel giudizio di piazza che tanto temono i personaggi pubblici, politici o uomini d'affari che siano. Del resto in un paese democratico la funzione dell'informazione e la sua possibilità di esprimersi consiste proprio nel consentire alle persone la conoscenza e la formazione di un opinione circostanziata. Non credo si possa pensare di intervenire "selezionando" in qualche modo tale possibilità, anche perché sorgerebbe il dubbio che taluni siano interessati più alla protezione di status che alla privacy.

Il problema diventa più delicato quando le intercettazioni coinvolgono persone estranee ai fatti oggetto di indagine, sui quali inevitabilmente quella piazza punta il dito, alle volte in modo superficiale e per il solo fatto che un giornale ne abbia parlato. In questi casi non si può certo rilevare quella essenzialità dell'informazione - che è il presupposto principale del prevalere del diritto di informare - sul diritto alla privacy dei cittadini. Chi è estraneo ai fatti non deve assolutamente essere nominato, questo è certo.
Proprio il Garante della privacy nel suo intervento ha ricordato la disciplina di protezione dei dati personali, che contempera i diritti fondamentali della persona con il diritto dei cittadini all'informazione e con la libertà di stampa (d. lg. N. 196/2003, codice di deontologia relativo all'attività giornalistica). In particolare "garantisce al giornalista il diritto all'informazione su fatti di interesse pubblico, ma nel rispetto dell'essenzialità dell'informazione; "considera quindi legittima la divulgazione di notizie di rilevante interesse pubblico o sociale solo quando l'informazione, anche dettagliata, sia indispensabile per l'originalità dei fatti, o per la qualificazione dei protagonisti o per la descrizione dei modi particolari in cui sono avvenuti e prescrive che si evitino riferimenti a congiunti o ad altri soggetti non interessati ai fatti".

Il contemperamento tra diritto di cronaca e diritti fondamentali della persona deve trovare il suo equilibrio su quel requisito dell'essenzialità dell'informazione, che ben comprende anche la possibilità di divulgare il contenuto delle intercettazioni telefoniche.
Un equilibrio che dovrebbe trovare un punto di appoggio anche nella presunzione di innocenza, principio cardine del nostro ordinamento giudiziario, per il quale ogni cittadino è colpevole solo quando e se una sentenza definitiva si pronunci a suo carico. In Italia questo equilibrio è vanificato dai tempi estremamente lunghi della giustizia come dai tentativi di delegittimare in modo strumentale la sua funzione.

Il fulcro su cui cercare un equilibrio resta pur sempre il declinare i diritti fondamentali della persona, il diritto alla privacy e il diritto di cronaca con il diritto dei cittadini ad essere informati. La libertà di informazione e il suo più o meno ampio respiro rappresentano il parallelo concretizzarsi in egual misura della democrazia di un paese. Anche se questo può risultare scomodo per alcuni.

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