di Rosa Ana De Santis

La storia di Stefano Cucchi comincia quando finisce la sua libertà. Sta fumando uno spinello con un suo amico. Subisce un controllo e una perquisizione, gli trovano 18 grammi di hashish, qualche pasticca. Viene fermato e arrestato. E’ sano. Sta bene. Cammina sulle sue gambe. Viene trasferito in una caserma dei carabinieri. Alla famiglia vengono riconsegnate le chiavi della macchina e gli viene detto che trattasi di fermo a soluzione rapida, più una operazione di routine che altro. Questa sarà la prima delle tre comunicazioni che la famiglia riceverà dalle istituzioni. La seconda li avviserà della detenzione ospedaliera e dell’impossibilità di vederlo senza l’autorizzazione del magistrato; la terza della morte di Stefano. Dev’essere così che va, in un paese dove in 11 mesi sono morte 62 persone in carcere, dove le celle scoppiano, gli istituti somigliano a cayenne e i processi sono bloccati, ma dove si dice che l’emergenza giustizia sono i magistrati “rossi”.

Parlare di questa morte significa, prima di tutto, guardare la morte di Stefano. Le foto che circolano su internet e sulla carta stampata rappresentano uno scomodo imbarazzo, oltre che un significativo ostacolo a tutti i tentativi di chiudere il caso con la teoria dell’accidentalità, del caso fortuito o del decesso naturale. Gli ultimi giorni di vita del giovane detenuto sono scanditi tra carcere e ospedale ed è in questa ricostruzione temporale che sta il centro delle responsabilità e delle colpe. Le diverse istituzioni chiamate in causa e il luogo in cui Stefano è stato condannato a morte. Le foto di Stefano sono la sola risorsa che ha potuto, finora, disinnescare l’omertà consueta. Come ha scritto Adriano Sofri su La Repubblica, “nessuno è tenuto a guardarle. Ma nessuno è autorizzato a parlare di questa morte senza guardarle”.

Sarà il magistrato a stabilire quali, tra le figure che si sono occupate di Stefano, ha responsabilità dirette o indirette nella sua tragica fine. Stefano ha 31 anni, è epilettico e pesa circa 44 chili, diranno poi. Potrà essere dimostrato un caso di malagiustizia o di malasanità, ma un fatto è certo. Stefano viene arrestato sano e viene ricoverato al Pertini in condizioni gravi. Ha subito colpi durissimi al volto e alla schiena. Perché?

Fino al processo è ancora in piedi, per quanto il volto sia segnato dai colpi ricevuti. Ma nessuno, né i carabinieri che lo accompagnano all’udienza per direttissima, né l’avvocato d’ufficio, né il giudice stesso, che pure ordina di visitarlo, chiedono ragione di quei segni sul viso. Solo il padre, che ha tempo unicamente per abbracciarlo, senza sapere che sarà per l’ultima volta, nota le percosse. Viene ordinata la custodia cautelare perché, si dice, senza fissa dimora. Non è vero, la dimora ce l’ha ed è quella dei genitori, dove i carabinieri hanno citofonato per avvisarli dell’arresto.

Sarà il medico del carcere che, nonostante (almeno così dicono) Stefano rifiuti il ricovero, stabilisce che la sua condizione fisica vada accertata in un reparto ospedaliero, ritenendo quel corpo martoriato incompatibile con il regime carcerario. La domanda è semplice: in che condizioni Stefano giunge in carcere dopo il processo? Le stesse in cui versava in aula o sono ulteriormente peggiorate?

Dopo la lettura della sentenza, che confermava il fermo e ordinava il suo trasferimento in carcere, Stefano aveva dato in escandescenze, prendendo a calci una sedia dell’aula del tribunale. Dal tribunale viene condotto in carcere tramite la polizia penitenziaria. All’arrivo nell’istituto di pena, però, il medico competente stabilisce il suo immediato trasferimento in ospedale per accertamenti diagnostici. Perché? Cos’è successo nel tragitto tra il tribunale e il carcere o, comunque, da quando Stefano è scomparso dalla vista del giudice fino a quando è ricomparso alla vista del medico? Forse la polizia penitenziaria potrebbe spiegarlo, se non fosse indaffarata a raccontare scuse. Potrebbe aiutare a chiarire se non occupasse il suo tempo a dire che il suo comportamento è irreprensibile.

La posizione dei sanitari dell’ospedale Pertini è tragicomica. Dapprima riferiscono di non essersi resi conto dei segni sul viso perché Stefano ha il lenzuolo che gli copre il volto. Quindi, a sentir ciò, viene ricoverato in base ad una diagnosi immaginaria, visto che non è possibile sapere cos’ha il paziente-detenuto. Successivamente, Stefano viene sottoposto ad una radiografia che conferma le fratture e ad un esame dell’emocromo, che non farebbe pensare ad emorragie interne. Sempre con il volto coperto?

Nel Paese che fa le veglie per la vita di Eluana, nel Parlamento che tutela la vita delle persone in stato vegetativo cronico a colpi di alimentazione e idratazione forzata, si può lasciar morire un ragazzo come Stefano? I familiari di Stefano, e tutti coloro che non amano bersi tutto quello che i colpevoli raccontano per definirsi innocenti, sanno solo due cose: sanno che Stefano è stato sano finché libero e che da quando è divenuto detenuto ha cominciato a morire per percosse per poi finirla per arresto cardiaco.

Sanno che, come Federico Aldovrandi e come troppi altri, sono stati uccisi dalla ferocia questurina di chi si sente legittimato ad imitare il ventennio fascista grazie al clima politico imperante. Tutti coloro che non amano bersi tutto quello che i colpevoli raccontano per definirsi innocenti, chiedono che i colpevoli paghino. Questa volta, per la prima volta, finalmente paghino.

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