di Mario Braconi

Fino a poco fa il lancio dell’iPhone in Italia, con le code interminabili davanti ai negozi, ha costituito materiale di studio per psicologi e sociologi. La chiave di lettura economica si rivela infatti inefficace a spiegare il comportamento di migliaia di Italiani, per il resto del tutto normali, che si autoinfliggono attese da socialismo reale al fine di pagare poco meno di seicento euro un prodotto che, a parte il design accattivante, non offre niente di più di un normale telefonino evoluto: foto, video, e-mail, navigazione internet, musica, mappe satellitari e, sì, anche fare e ricevere telefonare (chip difettosi permettendo). E pensare che, secondo Isuppli, il costo industriale di iPhone non arriva a 175 dollari americani (ai cambi attuali, meno di 120 euro). Anche supponendo che Apple venda il dispositivo agli operatori italiani al doppio del suo costo, Telecom Italia e Vodafone lo stanno offrendo ai propri clienti con un ricarico di quasi due volte e mezzo. Clienti che, non appena avranno scartato il giocattolo, si scopriranno ammanettati mani e piedi alla compagnia telefonica, che offre il “pacchetto” di servizi di connessione alla Rete a prezzi vergognosi, approfittando della brama consumistica italiana. A proposito di connessione, la banca d’affari giapponese Nomura ha effettuato una ricerca sui malfunzionamenti dei nuovi iPhone 3G, secondo la quale sarebbe un chip difettoso a causare le cadute nei collegamenti voce e le difficoltà di accesso alla Rete lamentate dai clienti.

Tutto ciò costituirebbe uno spunto interessante per qualche tirata su “forma e sostanza”, “necessario e superfluo” e via discorrendo. Ma la ragione per cui oggi parliamo di iPhone è un’altra: Jonathan Zdziarski, un hacker americano fissato con l’Iphone, ha scoperto che il telefonino Apple si collega regolarmente ad un sito che Apple ha predisposto allo scopo per memorizzare i programmi “proibiti” dal costruttore, in modo tale da essere in grado di disattivarli quando girano sul palmare (questo meccanismo in gergo si chiama “kill switch”, o bottone di spegnimento). Sfortunatamente Apple ha deciso che al proprietario di iPhone non spetti alcun ruolo nella faccenda: non verrà mai interpellato né informato di ciò che sta avvenendo nel cervellino sintetico del suo dispositivo.

Considerando la quantità di vita reale che può finire nella memoria di un apparecchio tipo iPhone (e-mail, fotografie, appunti, musica, registrazioni audio) è comprensibile che questa notizia abbia fatto titoli sulla stampa americana: a nessuno piace pensare che qualcun altro possa gestire da lontano ed in modo del tutto autonomo una memoria che contiene tanti dati personali così importanti.

Zdziarski però sul suo sito ha smentito che su iPhone sia montato un software che distrugge i programmi indesiderati (ce ne è però uno che li “spegne”) e che iPhone (almeno per il momento) spii il suo proprietario su commissione di Apple (ad esempio comunicando ad un database centralizzato la sua posizione fisica, rilevata dal sistema di navigazione satellitare incluso in iPhone). A proposito di usi impropri del GPS, Zdziarski ha riscontrato che iPhone è in grado di disattivare autonomamente tutti i programmi “pirata” (i cosiddetti malware) che cercano di “rubare” dal dispositivo informazioni relative al luogo fisico in cui si trova il telefono.

La natura di questa funzionalità, che si spera possa proteggere la privacy dei cittadini possessori di iPhone in tempi di delirio di controllo generalizzato, è però dubbia: o è un sistema anti-malware e, allora, non si capisce perché non sia consentito all’utente di distruggere il programma ostile; oppure si tratta di un codice impiegato da Apple per spegnere tutti i software che non si confanno al suo modello di business, come ad esempio quelli di ottimizzazione dei percorsi autostradali (che la casa bandisce dal menù di quelli disponibili). “Quale che sia la verità, conclude Zdziarski, mi spaventa l’idea che sia Apple a decidere quale funzionalità debbono coprire gli applicativi sul mio palmare”.

Zdziarski assieme a molti altri hacker deve aver fatto un salto sulla sedia leggendo l’intervista che Steve Jobs ha rilasciato al Wall Street Journal lo scorso 11 agosto; l’Amministratore Delegato della Apple in quella occasione ha ammesso che i sospetti degli informatici sono fondati e che, effettivamente, iPhone dispone di un codice che permette alla casa produttrice di disattivare (l’articolo parla di “removal”, cioè di “rimozione”) software non desiderati, ad esempio quelli che tentano di “rubare” al cliente dati personali. Ora, tutti gli applicativi che girano su iPhone si scaricano da AppStore, un grande negozio online gestito da Apple: si suppone quindi che la Casa garantisca la qualità dei software che mette a disposizione del pubblico mediante la sua collaudata piattaforma di commercio elettronico.

Perciò è preoccupante apprendere dall’amministratore delegato della stessa Apple che egli ritiene del tutto normale autoconferirsi il potere di bloccare un programma pericoloso che i suoi clienti hanno regolarmente scaricato (pagando) dal sito della Apple; il minimo che si possa pensare è che su AppStore vada a finire più o meno di tutto e che la Apple non sia in grado di garantire la qualità e la sicurezza di ciò che mette a disposizione dei suoi clienti.

Ma che cosa ha spinto Apple a fare un simile passo falso? Il denaro, forse? Ce lo dice Steve Jobs nella sua intervista al WSJ: “dalla sua apertura, AppStore ha venduto software per circa un milione di dollari al giorno, il che vuol dire 360 milioni di dollari di ricavi l’anno, che presto diventeranno mezzo miliardo”. Se però si desidera sapere quali siano questi meravigliosi software che si possono scaricare, viene fuori che si tratta principalmente di giochini e altre sciocchezze; c’è chi, come Sascha Segan, ha ribattezzato il sito AppStore in CrapStore, cioè “negozio di porcherie”.

Le affermazioni di Jobs sono gravi, sia da un punto di vista politico che da quello dell’immagine di un’azienda che ha tentato di distinguersi per la una visione che coniuga innovazione e pensiero alternativo. Non solo l’iPhone è poco sicuro e si presta a violazioni gravi della privacy, ma è la manifestazione reale di un grave difetto di pensiero secondo cui non è più importante fare le cose bene, ma conta solo farci un sacco di soldi.

Per dirla con Zdziarski: “In quale momento un produttore di software può disinteressarsi del funzionamento di un computer su cui è installato il suo programma? In base a quale autorità lo stesso produttore può prendere il controllo dell’apparato senza il permesso del proprietario della macchina? Il semplice fatto che si senta la necessità di installare un interruttore remoto è la prova che il software non funziona e che, quindi, ha fallito.”

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