Dopo essersi fatto bullizzare perfino da Carlo Calenda, Enrico Letta può reclamare la palma di segretario più disastroso nella storia del Pd, che pure di flagelli ne ha conosciuti più d’uno. Nella mezzora di comizio davanti a Lucia Annunziata, il leader di Azione ha annunciato la rottura con la coalizione guidata dai dem, affermando di essere contrario alla politica di allargamento massimo delle alleanze portata avanti da Letta. In sostanza, il problema riguarda l’affiliazione di Fratoianni, Bonelli, Di Maio e altri ex grillini.

È probabile che Calenda si sia convinto a correre da solo perché i sondaggisti gli hanno spiegato che in questo modo prenderà più voti, attingendo in maniera più sostanziosa al bacino della destra che sa stare a tavola. Allo stesso tempo, però, è pur vero che con questo strappo Azione rinuncia a una buona fetta di collegi uninominali che l’alleanza col Pd gli avrebbe garantito e che ora non può più sperare di raggiungere. Il suo rimarrà forse un sogno elettorale di mezza estate, ma se il 25 settembre andrà a sbattere contro un muro, Calenda potrà almeno consolarsi pensando di aver dato di sé un’immagine coerente.

 

Non potrà fare altrettanto Enrico Letta, che continua a fare la figura del fesso in ogni circostanza possibile. In nessun leader politico italiano degli ultimi decenni si ricorda una tale mancanza di strategia, visione e contenuti. Prima ha portato avanti per anni l’idea del “campo largo” con il Movimento 5 Stelle, difendendola in prima persona di fronte alle perplessità di mezzo partito, ma senza mai lavorare davvero per dare sostanza al progetto. Di fatto, l’alleanza Pd-M5S è nata per ragioni di convenienza a livello locale, ma sul piano nazionale non si è mai nemmeno iniziato a costruirla.

Dopo di che, quando i 5 Stelle hanno goffamente innescato la caduta del governo Draghi, dalla sera alla mattina Letta ha rinnegato il “campo largo” e si è messo a cercare alleati alternativi. E lo ha fatto in un modo comico. A metà della trattativa con Calenda ha sparato in cielo una proposta inusitatamente di sinistra: era un’idea giusta nella sostanza (tassare di più le successioni multimilionarie per mettere più soldi sul capitolo giovani), ma è stata formulata male e comunicata peggio, per giunta nel bel mezzo del negoziato con un partito di centrodestra. Risultato: pur di chiudere l’alleanza con Azione, la proposta sinistroide è stata abortita alla velocità della luce.

Poi però è arrivato il capolavoro d’incoerenza: dopo aver ripudiato i 5 Stelle per la loro infedeltà a Draghi, Letta ha invitato nella coalizione anche Fratoianni e Bonelli, che di fiducia all’ex presidente della Bce non ne hanno mai votata una. Su questo ha ragione Calenda: se l’alleanza deve avere come stella polare l’agenda Draghi, per i partitini riottosi non c’è posto; se invece l’agenda Draghi è sacrificabile, allora tanto vale tenersi i 5 Stelle, che almeno portano una quantità di voti di gran lunga superiore.

Ma poi cos’è l’agenda Draghi? In sintesi, il commissariamento della politica italiana da parte della Commissione europea, il cui obiettivo non è certo la tutela dei diritti sociali, ma l’efficienza del mercato. Ora, in nessuna delle infinite realtà parallele si può sperare di vincere le elezioni con l’agenda Draghi, che non indica agli elettori una singola soluzione ai problemi della vita reale, ma si disperde nell’aria in slogan vacui e facili da dimenticare. Questo concetto è chiaro a tutti tranne che a Calenda e a Letta, che, anche se divisi, rimangono creature simili: entrambi sono convinti che gli aperitivi a Capalbio rispecchino la realtà sociale del Paese.

In una cornice simile non può che festeggiare la destra fasciotrash, litigiosa e caciarona quanto si vuole, ma comunque pronta a fare man bassa dei collegi uninominali lasciati indifesi dagli avversari.

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