Enrico Letta ha le idee chiare: guida un partito alternativo alla destra, che però cerca alleati a destra e punta ai voti dell’elettorato di destra. In una lunga intervista pubblicata domenica su Repubblica, il segretario del Pd si è posto come antagonista di Giorgia Meloni per la corsa a Palazzo Chigi, ma non è riuscito a dire nulla di preciso né sugli alleati con cui pensa di costruire la maggioranza né sul programma che intende sottoporre agli italiani per conquistare il loro voto.

Sul primo fronte, quello delle alleanze, l’unica linea netta tracciata da Letta è quella che separa per sempre la strada dei dem quella del Movimento 5 Stelle di Giuseppe Conte. “Il percorso comune – spiega il segretario – si è interrotto il 20 luglio e non può riprendere: è stata un punto di non ritorno. Avevo avvertito che non votare la prima fiducia sarebbe stato lo sparo di Sarajevo”.

 

Addio, quindi, al campo largo. Fa impressione con quanto candore Letta rinneghi dalla sera alla mattina la sua principale strategia elettorale, da lui concepita, perseguita e difesa contro tutti. Per anni il leader del Pd ha continuato a tenere in piedi un’alleanza ambigua, in cui di fatto non credeva nessuno. Sembrava che questa scelta fosse dettata dalla consapevolezza che, per vincere contro la destra, allearsi con i partitini non basterà. Ora però questo pragmatismo viene meno perché si è verificata la più prevedibile delle circostanze: Conte – che, come leader politico, è del tutto incapace – ha cercato goffamente di alzare la voce per evitare ulteriori spaccature nel Movimento, col risultato di farsi fregare da Lega e Fratelli d’Italia, che lo hanno usato come utile idiota per far cadere il governo e forzare il ritorno al voto.

Negli ultimi anni Letta è stato messo in guarda da chiunque sull’inaffidabilità di Conte, ma ha fatto finta di non sentire e di non vedere, andando avanti come nulla fosse. A questo punto la storia ha dimostrato che il segretario dem aveva torto e che la sua principale decisione da quando è tornato da Parigi – il campo largo fondato sull’alleanza con M5S – era una gigantesca fesseria. In un partito con il senso del ridicolo, ce ne sarebbe abbastanza per pretendere che Letta tragga le conseguenze dei propri errori, rifaccia le valige e torni in Francia. Il Pd non ha però gli anticorpi necessari a innescare simili gesti di dignità, per cui si finge che vada tutto bene.

Poi però bisogna fare i conti con la realtà, che a questo punto è disastrosa. Letta riconosce che “abbiamo in vigore la peggiore legge elettorale possibile”, ma dimentica di spiegarci per quale ragione il suo partito, al governo da anni con due diverse maggioranze, non abbia mai nemmeno provato a cambiarla. Altro fallimento grande quanto una casa, che il 25 settembre regalerà la vittoria alla destra. Non c’erano dubbi su questo esito nemmeno quando ancora nel Pd si vaneggiava di “campo largo”: figurarsi ora che il campo è diventato stretto come un sentiero.

Peraltro, la destinazione di questa strettoia, nemmeno a dirlo, sono i cespugli di centro-centrodestra. A decidere le alleanze sarà la direzione, ma i nomi sono quelli: “Calenda, di tutti i protagonisti possibili, è il più consistente dal punto di vista dei numeri e ha svolto in Europa un lavoro interessante e in parte condiviso”, spiega ancora Letta a Repubblica, aggiungendo poi alla lista Speranza, i figlioli prodighi di Articolo 1, Di Maio e perfino Renzi. Non solo: Letta si spinge a tessere le lodi di Gelmini, Carfagna e Brunetta, che hanno “dimostrato grande coraggio, lasciando il certo per l’incerto, e un seggio garantito, perché in dissenso con un centrodestra guidato dai nazionalisti e dagli antieuropeisti”.

Ora, con una simile armata Brancaleone, quante possibilità ci sono di mettere insieme un programma che abbia anche solo vagamente un profumo di sinistra? Nemmeno una, chiaramente. Per questo Letta prima dice che “contano le idee”, ma poi non è in grado di indicare una sola misura concreta per la quale il Pd intenda battersi. “Vogliamo andare avanti, sul lavoro, sulla giustizia sociale, sulla lotta alle disuguaglianze e sui diritti”, dice. E poi aggiunge di voler salvare l’ambiente, di essere per la salute pubblica, per la progressività fiscale, per l’Europa e per l’atlantismo. Il trionfo della vaghezza, insomma.

Verso la fine dell’intervista, però, Letta sembra tornare un attimo sulla terra e parla di “un contratto di formazione lavoro per i giovani”, di “regole per incentivare i contratti a tempo indeterminato” e di una nuova riforma delle pensioni per aumentare la flessibilità in uscita. Peccato non gli sia venuto in mente di entrare più nel dettaglio su questi argomenti. Forse non glielo hanno mai spiegato, ma è solo e soltanto di questo che dovrebbe parlare agli italiani. Non del coraggio di Brunetta.

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