Se dall’insieme dei partiti italiani rappresentati in Parlamento togliamo Lega e Fratelli d’Italia, quello che rimane può essere definito come “la non-sinistra che sa stare a tavola”. È una compagine litigiosa, fratturata da odi personali feroci, ma allo stesso tempo accomunata da due caratteristiche. Primo, nessuno si definisce di sinistra né di centrosinistra, parole scomparse anche dal vocabolario del Pd. Secondo, nessuno condivide i tratti più beceri della destra-destra: nazionalismo, razzismo, xenofobia.

Dopodiché, la non-sinistra che sa stare a tavola comprende due sottoinsiemi, ciascuno con i propri rituali. Il primo è quello dei minipartiti che hanno il cuore a destra, si definiscono riformisti, progressisti o repubblicani e, per farla breve, di solito vengono indicati come “centro”. Ossessionati dall’immagine del cantiere, sono sempre impegnati a costruire un nuovo polo che abbia come stella polare le riforme, non meglio precisate.

 

Negli ultimi dieci anni questo teatrino ha avuto come protagonisti prima Mario Monti, poi Matteo Renzi (non il rottamatore, ma il rottamato). Ora è il turno di Carlo Calenda, che lo scorso fine settimana ha tenuto il primo congresso di Azione ricalcando, non si sa con quanta consapevolezza, le orme dei suoi predecessori.

Come da copione, dopo aver rifiutato l’etichetta di “centro”, Calenda ha parlato di riformismo e di riforme, tante riforme, riforme fondamentali. E si è detto sicuro - come Renzi e Monti ai loro tempi - di arrivare presto in doppia cifra nei sondaggi. Per riuscirci, ovviamente, bisognerà portare avanti il cantiere del nuovo polo, che per adesso comprende solo +Europa, ma presto potrebbe allungarsi verso Forza Italia e Cambiamo di Toti. Più difficile il matrimonio con Italia Viva, che in teoria sarebbe naturale, ma in pratica è ostacolato dallo scontro fra gli Ego dei due leader.

Il secondo sottoinsieme della non-sinistra che sa stare a tavola è quello dei grandi partiti a vocazione federativa. Su questo terreno, lo scettro dell’Ulivo è ora nelle mani di Enrico Letta, che vorrebbe creare una coalizione policefala tenendo insieme un po’ tutti. L’ultimo tentativo in questa direzione il segretario dem lo ha fatto proprio sul palco del congresso di Azione, dove ha cercato di blandire i calendiani con frasi ricche di contenuto come “state trasmettendo una buona energia, c’è bisogno di buona politica”.

Poi però, con un eccesso d’entusiasmo, Letta ha buttato sul tavolo anche l’offerta per le elezioni del 2023: “Insieme vinceremo le politiche e faremo un governo riformista”. Mica di centrosinistra, eh: riformista. Peccato che lo scrupolo lessicale del leader Pd non sia bastato a sedurre Calenda, il quale ha subito ribadito la sua indisponibilità a lavorare con i 5 Stelle. Esternazione che, a sua volta, ha innescato la replica di Giuseppe Conte: “L’arroganza e i veti li lasciamo agli altri - ha detto l’ex premier ai suoi, stando a quanto riporta Repubblica - C’è differenza tra campo largo e campo di battaglia, le accozzaglie di potere a noi non interessano”.

Mica male, detto da uno che ha governato prima con la Lega e subito dopo con il Pd. Ma, in fondo, ai tempi gialloverdi Conte era ancora un neofita della politica. Tutti hanno bisogno di fare esperienza e lui, in particolare, doveva firmare un paio di decreti Sicurezza prima di decidere da che parte stare. Da quella della non-sinistra che sa stare a tavola e, soprattutto, sa litigare.

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