Mario Draghi può molto, ma l’onnipotenza gli resta preclusa. La sua autorità garantisce che l’Italia obbedirà a Bruxelles in Consiglio dei ministri e in Parlamento, ma non che manterrà tutte le promesse. Per una ragione semplice: la realizzazione del Piano nazionale di ripresa e resilienza dipende in buona parte dalle Regioni, che nel nostro Paese godono di grande autonomia dallo Stato centrale e brillano per inefficienza, corruzione e impreparazione. Basti pensare all’incapacità che hanno sempre dimostrato nell’utilizzo dei soldi comunitari.

 

Il problema è che, da quest’anno al 2026, non ci sono in gioco i soliti fondi strutturali, ma il più grande piano d’aiuti della storia europea. E l’Italia rischia più di chiunque altro, sia perché è di gran lunga il maggior beneficiario del Next Generation Eu (a Roma sono destinati 191,5 miliardi dei 723,8 complessivi), sia perché ha già deciso di giocarsi tutto. Il nostro è infatti l’unico dei 27 Paesi Ue ad aver chiesto l’intero pacchetto di fondi: 68,9 miliardi di “grants”, i trasferimenti a fondo perduto, e 122,6 miliardi di “loans”, i prestiti veri e propri, che saranno anche a condizioni agevolate, ma prima o poi vanno restituiti. Finora nessuno a parte noi ha chiesto un solo euro di “loans”: lo sta per fare la Spagna, ma per un importo decisamente più ridotto, intorno ai 20 miliardi.

Se vuole ottenere tutti questi soldi, l’Italia deve rispettare in cinque anni 527 impegni fra riforme e investimenti. In particolare, 51 vanno completati entro quest’anno, in modo da sbloccare a gennaio-febbraio 2022 una prima rata di aiuti da 24 miliardi (che si aggiungerebbero ai 24,9 ricevuti come anticipo ad agosto). Dal sito di Palazzo Chigi si ricava che venti giorni fa eravamo a quota 29, poco oltre la metà. Non molto, ma comunque in accelerazione rispetto a fine settembre, quando eravamo fermi a 13, con appena 8 riforme completate su 27 e 5 investimenti su 24. Fra qualche giorno Roberto Garofoli, sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, farà il punto della situazione in un discorso al Parlamento.

A preoccupare Bruxelles non sono però gli impegni da mantenere nel 2021, che i tecnici europei considerano alla portata dell’Italia. Ben più allarmanti sono le prospettive per il primo semestre dell’anno prossimo, vista la tabella di marcia a tappe forzate che Governo e Camere dovrebbero rispettare.

Entro marzo è attesa l’approvazione di una parte importante della riforma fiscale (la tax compliance, cioè le regole per l'adempimento spontaneo agli obblighi tributari da parte dei contribuenti), ma il vero ingorgo arriverà tre mesi più tardi. Per la fine di giugno, infatti, bisognerebbe approvare la legge delega sul pubblico impiego, la legge sulla prevenzione sanitaria e il decreto sul dissesto idrogeologico, oltre a presentare un provvedimento controverso come la legge sulla concorrenza.

Mantenere tutti questi impegni sarebbe complicato in tempi normali: figurarsi all’inizio del 2022, quando la maggioranza sarà messa alla prova dall’elezione del nuovo Presidente della Repubblica e il Paese dovrà fare i conti con la nuova ondata di pandemia che sta montando in queste settimane. Ce n’è abbastanza per giustificare l’angoscia dei tecnici europei, anche perché i progressi dei singoli Paesi vengono monitorati da Bruxelles e, in caso di bocciatura a una delle verifiche intermedie, le successive rate di aiuti vengono congelate. Se questo accadesse all’Italia – considerato il peso del nostro Paese nel NextGen – a fallire sarebbe l’intero progetto per il rilancio dell’Europa.

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