Per la prima volta nella sua storia quasi trentennale, Forza Italia sperimenta il correntismo. Da quando fu fondata, nel 1994, la formazione di Silvio Berlusconi è sempre stata più simile a un’azienda privata - con un amministratore delegato e tanti dipendenti stipendiati - che a un partito politico. Per questo è rimasta estranea a dinamiche dialettiche come, appunto, la formazione di correnti.

 

Ora però la situazione è assai diversa rispetto a 27 anni fa. Forza Italia è il partito più piccolo di un centrodestra schizofrenico - mezzo al governo e mezzo fuori - che aspira a governare ma non riesce a mettersi d’accordo su nulla: quando tornare al voto, con quale legge elettorale, chi candidare a Palazzo Chigi. In più, Forza Italia rimane un corpo estraneo rispetto al duo Lega-Fratelli d’Italia, perché buona parte dei suoi esponenti non condivide l’intransigenza sovranista e si riconosce molto di più nel perimetro dei sedicenti riformisti. Un recinto per la verità angusto, in cui le uniche personalità di qualche rilievo sono due cloni in guerra fra loro, Matteo Renzi e Carlo Calenda, che raccolgono voti solo nelle Ztl rispettivamente di Firenze e di Roma.

Per Forza Italia, quindi, l’alleanza con i due partiti maggiori della destra ha solo un valore strategico: serve a evitare la dissoluzione in quel buco nero di voti che è il centro. Le recenti amministrative hanno però dimostrato che l’accoppiata Salvini-Meloni non è forte come si credeva fino a qualche mese fa e che, se il governo Draghi rimarrà davvero in piedi fino al 2023, tenere insieme i brandelli di un centrodestra già sfilacciato sarà sempre più difficile. Insomma, continuando su questa strada, alle prossime politiche si rischiano brutte sorprese.

Se a tutto questo si aggiunge il numero di candeline spente a settembre da Berlusconi (ottantacinque), si capisce per quale motivo una parte significativa di Forza Italia abbia iniziato le manovre di riposizionamento. A sparare i primi colpi ci ha pensato la ministra Mariastella Gelmini, che ha chiesto pubblicamente di modificare la linea politica del partito prendendo le distanze da Lega e Fratelli d’Italia. Una posizione sposata anche dagli altri ministri forzisti, Mara Carfagna e Renato Brunetta. Con loro – stando ai calcoli dei tre rivoltosi – sarebbe schierata la metà dei deputati azzurri.   

I correntisti gettano così le fondamenta di un’operazione che richiederà qualche mese. Ammesso che sia praticabile, l’allontanamento di Forza Italia dai sovranisti non potrà comunque consumarsi prima di marzo. Il motivo è tanto assurdo quanto reale: a febbraio c’è da eleggere il Presidente della Repubblica e Berlusconi ha bisogno di Salvini e Meloni per alimentare la fantasia di ascendere al Colle. L’idea è talmente surreale da sembrare uno scherzo, ma a quanto pare l’ex Cavaliere, non avendo nulla da perdere, è disposto a crederci fino all’ultimo.

Il segretario del Pd, Enrico Letta, sospetta che sia tutto un gioco delle parti, e probabilmente ha ragione, ma Berlusconi recita il suo ruolo con un certo talento. Prima, a Bruxelles, dice che vedrebbe bene Draghi al Quirinale “ma forse è meglio che continui a fare il premier”. Per il bene dell’Italia, s’intende. Poi liquida la rivolta dei ministri con disinvoltura: “Le affermazioni di Gelmini? Stanno fuori dalla realtà, non so cosa gli ha preso a questi qua”.

Carfagna però non ci sta a farsi sminuire e sottolinea che quella di Gelmini non è stata un’affermazione estemporanea: “Ha espresso un disagio diffuso e profondo e far finta che tutto vada bene credo non sia la migliore soluzione per chi vuole bene al proprio partito”.

Nel frattempo, un un’intervista a Repubblica, Brunetta chiarisce che l’obiettivo è riunire le “forze popolari, liberali e socialiste”. Tradotto dal linguaggio novecentesco, dovrebbe significare una coalizione formata da Forza Italia, Pd e centristi vari. Il progetto rischia di piacere a molti dem, ma al momento sembra fantapolitica, perché non tiene conto del Movimento 5 Stelle di Giuseppe Conte. Che sarà pure in caduta libera, ma prende comunque più voti di Fi e centristi messi insieme e rimane il primo alleato nel sogno ulivista coltivato da Letta.

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