di Mariavittoria Orsolato

Precarietà, cassa integrazione, ma soprattutto mancanza generalizzata di diritti e tanti, troppi doveri: per questo tanti hanno scioperato ieri. La giornata di mobilitazione generale indetta quattro mesi fa dalla Cgil, la prima per la segretaria Susanna Camusso, non ha avuto il classico mega-corteo romano ma ha voluto organizzare cortei in diverse regioni italiane per sottolineare la generalità della crisi e, forse, per sfuggire all’eterno balletto delle cifre.

Una querelle che però è immancabile e che nelle affermazioni divide gli stessi sindacati. Secondo la CGIL, l'adesione allo sciopero generale indetto dal sindacato per protestare contro la politica economica e occupazionale del governo è stata del 58%, per il presidente di Federmeccanica, Pier Luigi Ceccardi "la partecipazione dei lavoratori metalmeccanici allo sciopero generale risulta in media pari a circa il 16%”.

Cifre, numeri e percentuali che però perdono inevitabilmente di vista la valenza sociale - e anche politica - di quella che avrebbe dovuto essere una giornata di mobilitazione generale ma che, non essendo stata pubblicizzata a dovere, anche a causa degli stessi organizzatori, non ha forse raggiunto le quote sperate. Dai dipendenti delle cooperative sociali al popolo delle partite IVA - spesso dipendenti a tutti gli effetti - passando per i lavoratori stranieri, totalmente esclusi dal welfare e ai pensionati che protestano contro pensioni da fame. A migliaia sono scesi in piazza, affiancati come sempre da studenti e lavoratori della scuola pubblica alla disperata ricerca di tutele, per tentare di dare un segnale forte ad un governo sempre più sul punto dell’implosione.

Impatanato nei processi del premier e oberato dalle richieste dei sedicenti “responsabili”, il governo ha cristallizzato la politica economica sui tagli finendo per sclerotizzare gli affanni di quella che fu la classe media. Quella che ha la casa di proprietà, che per le ferie si fa sempre un viaggio e che vizia i suoi figli: quella fetta di società è in via di estinzione nonostante dagli anni ’60 abbia costituito la vera base produttiva dell’Italia e nessuno sembra accorgersene. L’austerità imposta dall’esecutivo non trova riscontro nei portafogli di chi quest’austerità l’ha imposta e la guerra ingaggiata contro la Libia è l’ennesimo sacrificio non richiesto. Ma i governanti liquidano la giornata così: “Una protesta per allungare il weekend - ha chiosato il ministro della Funzione Pubblica Renato Brunetta - la scarsissima adesione dei dipendenti pubblici allo sciopero certifica il fallimento di un'iniziativa di cui non si capiscono gli obiettivi e della quale i cittadini non sentivano certo l'esigenza".

Brunetta di certo non ha il polso del paese e la gente è sicuramente al colmo: i più sfortunati preda di situazioni limite, come alcuni lavoratori delle Assicurazioni Generali che con il contratto Ania a tempo indeterminato, avvallato paradossalmente dalla stessa Cgil, non riescono a portare a casa più di 500 euro al mese per otto ore di lavoro al giorno. Anche i sindacati hanno infatti di che fare un esame di coscienza. Con un paragone azzardato, potremmo affermare che la Cgil sta ai sindacati come la Lega sta alla maggioranza: entrambe sono in grado di spostare numeri importanti e l’impressione è che ieri forse si sarebbe potuto fare di più.

Il giorno prima dello sciopero la segretaria Camusso si è schierata apertamente con la Rsu contro la Fiom sulla vicenda dell’ex Bertone - dove il si ha vinto più per i sei anni di cassa integrazione che per altro - e il suo intervento ha finito per avviare la giornata di ieri su una querelle in contrasto con lo spirito della mobilitazione generale.

Anche le richieste ufficiali del maggiore sindacato italiano sono state in fondo assai generiche. La piattaforma rivendicativa dello sciopero si è occupata di alcune cose certamente importanti ma che lasciano intatto ed irrisolto il focus della protesta di chi è sceso in piazza. Si chiedono investimenti e un piano di sviluppo industriale, l'attuazione dei referendum e un piano energetico nazionale, si parla dell’emigrazione e dei conti pubblici dello Stato. Si chiede l'imposizione di una patrimoniale sul 5% dei contribuenti più ricchi del Paese che darebbe 18 miliardi di euro da impiegare utilmente a sostegno della occupazione.

Richieste nobili, per carità, ma lontane anni luce dalle problematiche che affliggono porzioni sempre più ampie dello strato sociale, problematiche che necessitano un aumento generalizzato dei salari con l’introduzione di un salario minimo garantito - come avviene ad esempio in Germania - l’abrogazione della legge Biagi e il conseguente ridimensionamento della precarietà, nonché un drastico ripensamento del sistema di previdenza sociale. Questo è quello che chiedono i lavoratori e queste le rivendicazioni che il sindacato che li deve rappresentare dovrebbe portare avanti. Lo scollamento delle cosiddette istituzioni dalla cittadinanza rischia il punto di non ritorno.

 

 

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