di Fabrizio Casari

Con la confitta alle elezioni amministrative, che è costata a Forza Italia una brusca perdita di consensi, pare passata di moda l'idea della "spallata", dell'"avviso di sfratto" che pretendeva una destra rabbiosa, priva di freni inibitori e anche della dose minima di educazione, politica e civile. L'ultimo spettacolo, andato in scena a Napoli - che si riteneva conquistabile - vedeva un leader che saltava, urlava, sbraitava e tirava fuori tutta la volgarità dell'arricchito brianzolo. Che insultava gli avversari portati a rango di nemici; che minacciava il clima politico e sociale con comizietti mussoliniani; che scriveva ai leaders stranieri minacciando di tornare a breve; che rideva sguaiato con tutti i suoi denti finti alle insolenze dei suoi dipendenti contro il Capo dello Stato. Questa sorta di caravanserraglio che ha fatto rimpiangere un qualunque Bagaglino senza censura, è stata la nuova modalità espressiva dei fascisti, post-fascisti e quasi fascisti che abitano la cosiddetta Casa della libertà nella stagione - breve ma intensa - della rivincita. E' durata poco la stagione; schiaffeggiata a Napoli e a Roma, in bilico fino all'ultimo voto a Milano, la breve stagione della rivincita si é rivelata presto quella della riperdita. Ma davvero la rissosità della destra è frutto dell'incapacità a riconoscere vittorie e sconfitte, anche quando abbiano margini risicati? Di una sorta, cioè, di scarsa educazione istituzionale e politica all'accettazione delle regole del gioco democratico?
Forse. Ma, più probabilmente, Berlusconi avverte la fine di un regime che gli garantiva il potere politico, economico e mediatico che configurava una sorta di dominio assoluto sul Paese. Le leggi per garantirgli la difesa e l'ampliamento dei suoi interessi; il denaro per alterare la competizione politica; televisioni, giornali, periodici, siti internet e case editrici per condizionare ogni possibile pubblico ed orientarlo culturalmente, prima ancora che politicamente. Alla fine, la garanzia del mantenimento dell'impero era questa: l'impero è vasto, ma per renderlo onnipotente bisogna favorirlo e la consolle di controllo utile allo scopo si trova a Palazzo Chigi.

La paura di Berlusconi è quella di vedere l'Italia diventare un paese con leggi e regole. Il suo terrore autentico è quello di dover vedere una nuova legge sul sistema misto radiotelevisivo, come anche una nuova legge sul conflitto d'interessi. Nessuna pruderie bolscevica: se solo le due leggi suddette fossero tradotte in italiano e copiate letteralmente dalla giurisprudenza statunitense, quella cioè dell'impero "del bene", il cavaliere nero sarebbe costretto a competere alla pari, cioè a perdere.
Perché una delle grandi menzogne della storia della costruzione dell'impero, è quella che lo vorrebbe più bravo, più abile, più ardimentoso ed innovativo degli altri competitors. Non è affatto vero.
Non vogliamo qui aprire una riflessione - che pure andrà fatta fuori dalle Procure - sull'origine, "miracolosa", delle sue improvvise ricchezze. Ma, pur riconoscendo una indubbia straordinarietà dell'uomo, il suo possedere abilità fuori del comune (anche a mentire spudoratamente, va detto) le sue aziende sono cresciute ed hanno prosperato anche in virtù dei vuoti legislativi che rendevano la poche norme esistenti inefficaci e, soprattutto, con l'aiuto politico garantitogli dall'asse Dc-Psi che governava l'Italia quindici e venti anni fa. Decreti ad hoc, leggi su misura: questo è quanto Berlusconi ha utilizzato per divenire lo straordinario imprenditore che è diventato. Finita l'epoca della supplenza politica, con Tangentopoli, il cavaliere di Arcore ha dovuto pensarci direttamente. Qui, altro che nella minaccia del comunismo, la ragione principale della "discesa in campo". Qui, e non altrove, si trova oggi la ragione delle sue paure attuali. Le leggi "ad personam", vero e proprio segno tangibile del suo quinquennio, altro non sono state se non l'iniziativa diretta dell'ex-premier per garantirsi, direttamente, ciò che altri non potevano più garantirgli.

Del resto, ad un imprenditore che attraversa ogni scandalo finanziario degli ultimi vent'anni, che viene accusato di corruzione di tutte le figure disponibili sulla scena e di aver alterato gli scambi e le compravendite delle grandi imprese italiane, davvero risulterebbe arduo mettersi in competizione rispettando le regole. La regola di Berlusconi è che le regole sono per gli altri, non per lui. Con regole chiare, valide per tutti e senza appoggi politici, Berlusconi perde.
Per Berlusconi non sarà semplice guardare avanti, ma non è detto che sia meglio guardare indietro. Dovrà tentare un terreno diverso di mediazione o scegliere la rappresentazione politica dell'impresa come esclusiva espressione del suo blocco sociale di riferimento. Ma sarebbe una scelta fortemente penalizzante da un punto di vista elettorale. Se ne comprende l'afflato e la naturale attrazione, ma le elites scelgono chi vince, se non possono vincere direttamente. Prova ne siano gli applausi dedicati a Padoa Schioppa.
E che sia stato applaudito dal parterre di Confindustria è comprensibile: chi dovrebbero applaudire i padroni di un capitalismo straccione e assistito, che dopo la sconfitta bruciante patita sull'articolo 18 è ora alla ricerca di un cammino possibile che tenga il Paese ancora alle ferriere mentre straparla di modernizzazione?
Molti si chiedono se Confindustria abbia presentato una dichiarazione di nostalgia per Berlusconi. Non c'è dubbio. Il quinquennio passato, reso allegro da condoni, riduzione di tasse ed assalti ai salotti buoni, è stato uno di quelli che a Viale dell'Astronomia non dimenticheranno facilmente.
Nemmeno i precari, i licenziati e gli impoveriti dalla finanza creativa lo faranno. Si tratta di capire se il governo Prodi sarà in grado di regolare le pulsioni della classe padronale: non serve piegarla, serve educarla al ruolo sociale dell'impresa. Per farlo, non è necessario evocare Marx. Basta Einaudi.

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