di mazzetta


Sembra impossibile, ma come d'incanto nel nostro paese le guerre non interessano più, nemmeno quelle nelle quali il nostro paese è coinvolto. Se la situazione in Afghanistan è tragica come non mai, nel nostro paese non c'è traccia di dibattito e Silvio Berlusconi ha potuto offrire all'alleato americano altri cinquecento uomini da mandare in zona di guerra senza che dal Parlamento, nemmeno dall'opposizione, si levasse una voce e senza alcun dibattito sui media. C'è da capirlo, Berlusconi, quando sacrifica i nostri militari per ottenere in cambio una foto con Obama che per mesi non l’ha ricevuto, ma è molto meno comprensibile che nel resto del paese l'Afghanistan sia caduto nell'oblio. Stessa sorte per il Pakistan, dove ormai è guerra. Una guerra che ha già fatto più di duemila vittime tra i talebani e ha provocato la fuga di tre milioni di pakistani dalla valle dello Swat; profughi che non hanno ricevuto assistenza e si sono arrangiati grazie alla generosa ospitalità dei compatrioti, non hanno ricevuto assistenza dalle organizzazioni internazionali e nemmeno dal governo pakistano, che pure ha battuto cassa presso il Fondo Monetario Internazionale e a Washington, per pagarsi la guerra e spostare la scadenza dei debiti che rischiavano di trascinare il paese nel default.
L'unica notizia positiva dal Pakistan è che i pakistani sembrano aver finalmente deposto ogni simpatia per i “fratelli” talebani, che da quando hanno tradito gli accordi sulla valle dello Swat, cominciando la solita teoria di decapitazioni e proibizioni “islamiche”, sono entrati nell'immaginario pakistano come nemici e traditori con i quali é impossibile parlare e ai quali è meglio sparare. L'esercito ha capito l'antifona e non ci ha messo molto a ricacciarli verso il confine con l'Afghanistan e a provocare loro ingenti perdite, anche se il destino di questa ennesima guerra asimmetrica non è per nulla scontato, l'impegno dell'esercito pakistano, a lungo complice dei movimenti armati talebani, è la novità più rilevante dal 2001.

L'apertura di un secondo fronte al di là del passo del Khyber non ha però giovato all'Afghanistan, dove i talebani sono più attivi che mai e dove il governo è sempre più assediato a Kabul. Non giova nemmeno il periodo elettorale, così come non giova l'ormai scontata riconferma dell'inutile Karzai, che sembrava in disgrazia presso gli americani, ma che ha saputo muoversi bene, cooptando i possibili avversari ed emarginando chi osa sfidarlo alle urne. Gli americani hanno però in serbo un piano di riserva e anche se Karzai sarà eletto al suo terzo mandato, sembra ormai certo che comanderà meno di quanto non comandi ora, visto il probabile sbarco a Kabul dell'americano Khalilzad, già ambasciatore a Kabul e Baghdad, nella veste di super-ministro emanazione diretta dell'amministrazione Obama.

In attesa delle elezioni si susseguono le solite pessime notizie. Dal punto di vista militare i talebani sono attivi come non mai e se in Pakistan subiscono, rispondendo con attentati e omicidi dimostrativi, in Afghanistan controllano gran parte del paese e conducono operazioni militari in numero e intensità mai vista dal 2001, anno dell'attacco americano. Quasi otto anni di permanenza degli eserciti occidentali non hanno dato molto agli afgani, che ancora oggi non hanno un governo nel quale riconoscersi, non hanno visto traccia di sviluppo economico, sono ancora del tutto privi d’infrastrutture e sostanzialmente in balia di signori della guerra e comandanti talebani.

La decisione dell'amministrazione Obama di aprire un secondo fronte in Pakistan, assecondata obtorto collo dal debolissimo presidente Zardari, ha di fatto inaugurato una nuova guerra senza che l'iniziativa abbia per ora avuto riflessi positivi nel più ampio scacchiere che vede il confronto tra gli USA e gli alleati occidentali da una parte e la galassia dell'estremismo islamico dall'altra. Se in Afghanistan va male come non mai, anche in Iraq e in Somalia le sorti dei governo sostenuti da Washington sono incerte e i resoconti dal campo sono preoccupanti, nemmeno il finto ritiro dall'Iraq e l'ennesimo restyling del governo somalo sembrano aver migliorato la situazione, che registra invece una pericolosa deriva islamista anche in Yemen dove, nonostante l'aiuto delle vicine autocrazie della Penisola Arabica, il governo fatica sempre di più nel tenere a bada l'insorgenza islamica.

Otto anni dopo l'attacco all'Afghanistan si può ben dire che la situazione non è cambiata di una virgola e che la “war on terror” è sostanzialmente persa, visto che sul terreno la guerra è risultata invincibile, per i talebani come per gli Stati Uniti e gli alleati. Una situazione di stallo per la quale la prima potenza militare del mondo non riesce ad aver ragione della guerriglia talebana, che a sua volta non è in grado di sloggiare gli occupanti. Una situazione che si ripete identica sugli altri fronti, lasciando milioni di persone in balia di conflitti armati confusi quanto sanguinosi, senza che nessuno al mondo sembri avere le forza o l'interesse per tirare le fila delle questioni e andare verso una ricomposizione che permetta a quei paesi di riprendere un cammino di pace e sviluppo.

Otto anni dopo, la “democrazia” non è stata recapitata a destinazione e ormai non se ne parla più. Forse l'offesa più grande ai milioni di profughi e di morti che ha provocato l'azione americana successiva al 9/11, quando l'amministrazione Usa prese la palla al balzo per esercitarsi tragicamente nel ruolo di unica superpotenza mondiale, perdendo allo stesso tempo tre guerre, la reputazione internazionale, molte vite e una quantità impressionante di dollari. Un sacrificio enorme in nome dell'enorme ipocrisia con la quale l'amministrazione Bush ha travestito tragici interventi armati con la maschera dell'altruismo, rafforzando le autocrazie amiche e arricchendo in maniera oscena le corporation vicine all'amministrazione.

Un'ipocrisia dalla quale purtroppo nemmeno l'amministrazione Obama sembra volersi smarcare, perché al di là delle differenze retoriche la politica del nuovo presidente segue le orme della precedente, ricorrendo alla menzogna esattamente come chi l'ha preceduta. È andata così con Guantanamo, che rimane aperta, e va così in Iraq, dove tra poco gli americani dovrebbero ritirarsi dalle città irachene, ma dalle quali invece non si ritireranno affatto, prova ne sia che la base americana a Baghdad non si sposterà di un metro e l'impegno formale a ritiro sarà rispettato con un semplice tratto di penna: l'area della base di Baghdad infatti non farà più parte di Baghdad, è bastata una decisione amministrativa che ha sottratto l'area ai confini amministrativi della capitale irachena, non hanno spostato la base, hanno cambiato i confini della città. Capitale che continuerà così ad essere pesantemente presidiata dagli americani a dispetto dei proclami ufficiali, grazie alla base che non è più a Baghdad e grazie all'enorme ambasciata americana, che grazie all'extraterritorialità non è nemmeno suolo iracheno.

Le guerre fondate sulla menzogna non possono certo risolversi grazie ad altre menzogne o perché la presidenza americana ha cambiato registro retorico, servirebbero piuttosto decisioni coraggiose e un disimpegno militare che per ora non sembra davvero in agenda, quali che fossero i motivi meno palesi (e reali) che hanno spinto gli USA in queste guerre, devono essere ancora straordinariamente attuali nei corridoi di Washington.

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