di Mario Braconi

Nella notte del 21 luglio 2001 diverse squadre della Mobile di Roma irrompono nella Scuola Diaz di Genova, dove sono accampati un centinaio di ragazzi che hanno partecipato alle manifestazioni contro il G8. Risultato: un centinaio di ragazzi feriti, un’ottantina di arresti arbitrari. Dopo 200 udienze, il tribunale di Genova, dopo dieci ore di camera di consiglio, ha condannato 13 dei 28 poliziotti imputati ad un totale di 36 anni: condanna minima rispetto ai 110 anni richiesti dai PM Zucca e Cardona Albini, chiamati a giudicare su una bruttissima storia di pestaggi selvaggi ed indiscriminati ai danni di giovani innocenti ed inermi, aggravati da conclamati episodi di crudele accanimento sulle vittime. Esemplari al proposito le vicende di una ragazza, manganellata sul capo fino a farle uscire della materia cerebrale, stando all’orripilante testimonianza di Michelangelo Fournier, all'epoca del G8 a Genova vice questore aggiunto del primo Reparto Mobile di Roma, condannato ieri a due anni e quella di un giornalista britannico, cui rappresentanti delle forze dell’ordine, a forza di calci, hanno fatto percorrere volando il perimetro di una stanza. Non sono mancati casi di simulazione di reati su cui la verità giudiziaria ha dato risposte contrastanti: la vicenda dell’accoltellamento dell’agente da parte di un manifestante, per il quale sono stati chiesti dal PM quattro anni di condanna al poliziotto per simulazione di reato, si è conclusa con l’assoluzione “perché il fatto non sussiste”; mentre anche il verdetto del tribunale ha confermato che la vicenda delle molotov ritrovate alla Scuola Diaz è stata frutto di una penosa messinscena maldestramente messa in atto da rappresentanti delle forze dell’ordine, nel tentativo di giustificare la cieca brutalità cui si sono abbandonate in quella tragica notte del 2001.

E proprio questa condanna a far pensare che ci sia una grave mancanza nella sentenza del tribunale, che sembra smontare la tesi della omogeneità dei comportamenti criminosi lungo tutta la catena di comando, dai vertici fino agli esecutori materiali. I casi sono due: o i capi non sapevano quello che facevano i sottoposti (e questo è gravissimo e comunque prefigura la responsabilità oggettiva), oppure lo sapevano, e dunque erano al corrente delle loro comportamenti criminali, atti di depistaggio compresi. Da questa prospettiva, il caso di Michelangelo Fournier, uno dei poliziotti oggi condannati per gli eventi della Scuola Diaz, che a giugno dello scorso anno ha deciso di vuotare il sacco su alcune scomode verità che riguardavano gli eventi del 21 luglio 2001, è esemplare.

Nel corso di una testimonianza in aula, Fournier ha ripetuto la frase con la quale già durante la sua prima deposizione (2002) aveva descritto la scena che gli si presentò davanti agli occhi subito dopo l'irruzione: “Una macelleria messicana”. Secondo Fournier, all'interno della scuola si stava perpetrando un vero e proprio pestaggio crudele e sistematico, caratterizzato da episodi particolarmente gravi di accanimento su ragazzi a terra; vale a dire, una situazione del tutto opposta a quella descritta dal suo capo, Canterini (comandante del Settimo nucleo del Primo Reparto Mobile di Roma), il quale, nonostante abbia sostenuto di esser giunto sul posto subito dopo la fine delle violenze e di non essere in grado di individuarne i veri responsabili, è stato condannato per lesioni personali aggravate e violenza privata.

E’ sempre Fournier a riferire di essere intervenuto più volte per tentare di arginare gli atti di barbarie e di essere stato costretto a togliersi il casco per farsi identificare dal suo collega che, non pago di aver manganellato la testa una ragazza fino a rompergliela, mimava atti sessuali sul suo corpo esanime. Fournier ha giustificato il suo silenzio prima del giugno 2007 con un atteggiamento dettato da “spirito di appartenenza”.

A prescindere dalla ragione che ha spinto Fournier a tradire quello “spirito di appartenenza” che per lungo tempo gli ha impedito un'altra appartenenza, quella al genere umano (ma questo riguarda la sua coscienza), sembra credibile la tesi del tribunale, secondo cui gli atti criminosi perpetrati dai poliziotti alla Diaz sarebbero imputabili a un manipolo di schegge impazzite? Se Fournier era il “poliziotto buono” che diceva “basta!” ai suoi colleghi (e sottoposti) più scalmanati senza peraltro riuscire a calmarli, come funziona la polizia in Italia?

Resta una vicenda vergognosa, scempio di corpi e diritto avvenuto a governo di destra appena insediato. Le “mani libere” che hanno prodotto la sospensione delle leggi e delle norme tutte, lo schiacciamento militare del dissenso politico. Le prove generali di un regime che, quando anche si processa, lo fa per autoassolversi.

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