di Fabrizio Casari

Una grande giornata di democrazia, è stata definita la domenica del Pd. E in qualche modo si deve ammettere che gli oltre tre milioni di elettori che hanno deciso di recarsi alle urne per incoronare Walter Veltroni nuovo segretario del Partito Democratico rappresentano, quale che sia l’opinione che si ha dell’operazione politica, un indubbio successo per il neonato partito. Smentiti dunque i timori della vigilia circa la scarsa affluenza alle urne, risparmiateci le denunce di brogli dall’on. Rizzo, si sono archiviati anche gli ovvi problemi politici che in caso di scarsa affluenza, sarebbero nati sia nello schieramento del centrosinistra che nel governo. E non è un caso che quando ancora non era ancora stato ufficialmente proclamato il vincitore del megasondaggio chiamato primarie, Romano Prodi, forse toccando ferro, si diceva certo di "lavorare perfettamente" con il nuovo segretario del PD. Perché se è vero che la genesi e la nascita del PD hanno rappresentato due tappe fondamentali nel pericolante cammino dell’instabilità governativa, anche un eventuale fallimento delle primarie per eleggere il segretario avrebbe determinato una crisi politica di proporzioni devastanti per l’azionista principale del governo. Un affluenza degli elettori modesta avrebbe indubbiamente significato uno scollamento tra la dirigenza del nuovo soggetto politico e la sua base elettorale. Oltre tutto, il confronto con i quattro milioni di elettori di Romano Prodi alle primarie per la scelta del candidato premier dell’Unione sarebbe stato inevitabile quanto severo e carico di significati. Ma un dato è certo: da oggi Prodi è il premier di una coalizione il cui leader di maggioranza è Veltroni. Quella di ieri è comunque una risposta all’antipolitica. Se milioni di cittadini, in tempi oggettivamente difficili per la politica, scelgono comunque di dire la loro e di farlo affrontando code, è comunque una buona notizia. In questo senso D’Alema ha buon gioco nel definire “storica” la giornata di ieri, che il ministro degli Esteri identifica nella mescolanza delle due culture di riferimento - quella cattolica e quella socialista - del Paese.

Ma l’elezione del nuovo segretario, per quanto supportata da numeri così importanti, non apre un cammino in discesa. Il prossimo 27 Ottobre si riuniranno i 2400-2500 membri dell’assemblea costituente del futuro partito, che dovranno come primo passo formalizzare l’esito delle urne; niente di scontato, perché le componenti sono quanto di più litigioso. Le percentuali della vittoria del sindaco di Roma dovrebbero mettere tutti a tacere, ma proprio per questo tutti coloro che della squadra di Veltroni non fanno parte, si daranno da fare per pesare, con le buone per ora. D'altro canto, gli ex DC, come del resto lo stesso Veltroni, hanno ripetutamente rivendicato, nella formulazione dei criteri per la composizione della stessa, numeri diversi e blocchi tra loro contrastanti, scopo condizionamento “dal basso” (se così si può dire) dell’impronta leaderistica del nuovo segretario. Operazione non semplice, a dire il vero, perché costruire un partito solo dopo aver scelto il leader (che viene incoronato con il 75% dei consensi) e poi cercare di limitare al massimo i poteri del leader stesso, è cosa complicata oltre che stravagante.

Quanto poi alle possibilità di successo del nuovo partito, ci sia consentito avanzare dubbi. Le più ottimistiche previsioni assegnano al nuovo partito una percentuale che oscilla tra il 28 e il 34 per cento; numeri importanti, necessari ma non sufficienti. Di fronte alla crisi di consenso, alla inadeguatezza evidente del governo ed alla carenza di progettualità, quei numeri rischiano di essere un capitale sterile. Senza un accordo con la sinistra non si governa e, nell’ala moderata, il pieno è già stato fatto. Ma - si dice da parte di alcuni - si può giocare su diversi tavoli, prefigurare diverse maggioranze, prevedere diversi sbocchi, riforme elettorali permettendo. Ma sono parole in libertà e risulta inutile ribadire il dover “andare oltre” se non si è nemmeno capaci di stare qui ed ora. Ci sia consentito registrare l’assoluta inadeguatezza del gruppo dirigente del PD di andare oltre il prospettare alchimie di alleanze senza essere in grado di offrire, dal governo, dimostrazione di capacità politica e rispetto degli impegni programmatici assunti con gli elettori. Per ora il PD ha chiarito fondamentalmente una cosa: che la somma di due gruppi dirigenti fallimentari non genera la nascita di un gruppo dirigente vincente. Semmai le inadeguatezze di entrambi risulteranno accentuate, non superate.

Il PD è stato – e resta – una operazione politica a freddo. Nata per seppellire identità culturali e politiche e, con esse, un progetto di società, ha come obiettivo primario quello di costituire un blocco neocentrista che possa occupare ogni possibile spazio politico e determinare, con ciò, l’imprescindibilità del PD per qualunque composizione di maggioranze governative. In soffitta progetti di società, idealità e trasformazioni; la parola d’ordine è governare: comunque e, soprattutto, con chiunque. Perché il superamento della dialettica tra istanze progressiste e conservatrici porta con sé la fine del conflitto - sale della democrazia - e il venir meno della competizione tra modelli diversi o contrapposti.

E se in qualche modo i reduci della DC, o almeno la parte migliore della stessa, trovano comunque una certa comodità di collocazione in una forza politica che nasce sotto la bandiera dell’interclassismo, non altrettanto si può dire per gli eredi della sinistra che fu. Si parla di cambiamento, ma non è per favorire il cambiamento del Paese che la sinistra smette di esser tale. Si rinuncia proprio ad una “idea” di sinistra, ad una cultura politica che possa rappresentare le aspettative di crescita e di sviluppo. Si rinuncia a proporre un punto di vista, un’analisi ed una proposta “di” e “da” sinistra alla gravissima crisi di civiltà che abbiamo di fronte.

Proprio la fine dell’idea di una società all’insegna dell’uguaglianza pare essere la cifra di quella che appare una decisa inversione ad “U” del sistema di valori politici che risiedono alla base del nascituro partito. Ma lo abbiamo imparato da piccoli: quando si declina la libertà senza renderla imprescindibile dall’uguaglianza, si concepisce un disegno elitario e classista, che sostituisce i diritti collettivi di cittadinanza con i privilegi di una classe o di una casta. Non è infatti un caso che fin dall’inizio, dal cosiddetto “manifesto” del Pd passando alle ricorrenti frasi dei loro leader (veri o presunti che siano) e finendo con le proposte di “nuovo conio”, sia emersa con chiarezza la diversa natura del riferimento sociale; la persona ha sostituito le classi e l’individuo si è insediato nel vuoto contestuale.

In questo senso Veltroni è perfetto nel suo ruolo. Nessuno più del sindaco di Roma incarna meglio la trasversalità del messaggio politico, nessuno più di lui, nuovo per eccellenza, è pronto ad ogni conio di maggioranza. Ammesso però che i tre milioni di elettori che si sono recati ad incoronarlo siano disposti a fare altre code per altre urne. I voti di ieri sono un bonus a breve termine che gli elettori hanno voluto elargire in attesa di risposte. Forse l’ultima dimostrazione di disponibilità ad ingaggiarsi per un futuro migliore. Chiedono un progetto di società, non un ritorno al passato con parole nuove. Magari saranno pure "partiti democratici", ma non è detto vogliano arrivare democristiani.


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