di Sara Nicoli

C’è sempre un’inchiesta della magistratura che, alla fine, riesce a dipanare situazioni che la politica ha creato per convenienza, in dispregio delle regole e di cui non riesce più a venire a capo. Così, dopo più di un anno di polemiche e discussioni intorno all’impossibilità di rimuovere almeno uno dei consiglieri d’amministrazione della Rai in quota Polo, ecco che un’inchiesta della procura di Roma apre un varco sulla possibilità di ridare alla Rai un governo che faccia uscire l’azienda dal porto delle nebbie dei veti incrociati e dei ricatti in cui è caduta. Nell’ambito dell’inchiesta sui cosiddetti “stipendi d’oro” ai manager pubblici, la Procura di Roma ha riaperto il capitolo della discussa nomina di Alfredo Meocci a direttore generale della Rai - successivamente dichiarato incompatibile dall’ Agcom - e che è costata all’azienda una multa iperbolica di 14,8 milioni di euro, esattamente pari all’attivo di bilancio 2005 dichiarato dall’azienda. I cinque consiglieri d'amministrazione della Rai che votarono a favore della nomina a direttore generale di Alfredo Meocci, sono stati iscritti sul registro degli indagati. Per loro, ossia per Marco Staderini, Giovanna Bianchi Clerici, Angelo Petroni, Gennaro Malgeri e Giuliano Urbani, l’accusa è di abuso d’ufficio in base all’art. 323 del codice penale. Tutti sapevano perfettamente che la nomina di Meocci violava la legge, ma preferirono obbedire a Berlusconi che, probabilmente, voleva ripagare l’ex dg Rai dei servizi resi nella consulenza alla stesura della legge Gasparri e della tutela degli interessi Mediaset difesa, con discrezione, in veste di consigliere dell’Authority. Un eccesso di servilismo che adesso tutti e cinque potrebbero essere chiamati a restituire a caro prezzo.

Il fatto avvenne il 4 agosto del 2005 quando il cda della Rai votò a maggioranza il via libera a Meocci. I tre consiglieri di area Unione, ossia Nino Rizzo Nervo, Carlo Rognoni e Sandro Curzi, votarono contro mentre il presidente, Claudio Petruccioli, si astenne. In realtà, la situazione era stata chiara fin dai primi momenti, visto che la legge era sotto gli occhi di tutti: chi ha ricoperto incarichi di “controllore” della Rai, attraverso l’Agcom, non può essere nominato tra i “controllati” nei cinque anni successivi. Le perplessità dei consiglieri Rai dell’Unione furono anche suffragate da diversi pareri legali che paventarono la possibilità di sanzioni successive, fatto che avvenne puntualmente con la pesante multa comminata dall'Agcom alla Rai e allo stesso Meocci (373 mila euro).

Sanzione poi confermata dal Tar del Lazio che respinse anche il ricorso di presentato dall’ex dg che, subito dopo, si autosospese. La cronaca, quindi, lascia poco spazio alle interpretazioni. Per compiacere Berlusconi, i suoi referenti nel cda hanno fatto un gravissimo danno economico (e non solo) all’azienda che si trovavano ad amministrare. E che, guarda il caso, è tutt’oggi la concorrente principale di Mediaset: l’accusa di abuso d’ufficio è dunque di rigore.

Ma c’è anche un altro aspetto che non può emergere con chiarezza dalla semplice esposizione dei fatti ed è quello legato alla gestione dell’azienda. Nel corso dell’ultimo anno, i cinque consiglieri Rai in quota Polo hanno di fatto impedito la governabilità dell’azienda, bloccando nomine e investimenti, rimozioni e promozioni, strategie e progetti sulle nuove tecnologie: hanno imbalsamato la Rai lasciando, conseguentemente, a Mediaset e a Sky campo libero specialmente sul fronte degli investimenti legati all’espansione del digitale terrestre. Su questo fronte, per di più, la multa comminata dall’Authority in seguito alla nomina dell’incompatibile Meocci, ha impedito all’azienda di avere le risorse necessarie per sostenere un rilancio tecnologico congruo per restare sul mercato. Un’azione di disturbo tutta a beneficio della concorrenza e di cui, ci si augura, la magistratura terrà in conto quando si tratterà di tirare le fila dell’effettivo danno causato alla Rai dai famigli berlusconiani. Nel frattempo emerge con evidenza come l’indagine della Procura di Roma pregiudichi fortemente la legittimazione dell’attuale cda Rai e, di conseguenza, le sue delibere: per il bene dell’azienda, che è ancora un bene pubblico, i cinque consiglieri ancora al soldo del Cavaliere dovrebbero avere la decenza di farsi da parte. Ma siccome non lo faranno e vista la gravità della situazione in cui versa la Rai con un cda inquisito per i suoi tre quarti, sarebbe auspicabile una severa presa di posizione da parte del Parlamento (casomai attraverso la Commissione di Vigilanza) per rimettere l’azienda almeno all’interno dei binari della legalità sostituendo d’ufficio i cinque consiglieri sotto la lente della Procura di Roma. I sindacati dei lavoratori dell’azienda, a partire da quello dei giornalisti Rai, l’Usigrai, un primo passo intanto lo hanno fatto decidendo di entrare nel processo come parte civile “a tutela dei lavoratori e dei giornalisti dell’azienda”. Ma è una goccia in un mare. La vera svolta, a ben guardare, è ancora nelle mani del ministro del Tesoro, Padoa Schioppa, che si è sempre rifiutato di sostituire il consigliere di riferimento del dicastero nel cda, ossia Angelo Maria Petroni, nominato dal predecessore Siniscalco. Adesso la Procura di Roma gli ha fornito un elemento prezioso per chiederne, almeno, la sospensione cautelativa, consentendo un riequilibrio delle forze politiche in campo sul tavolo del cda: un’occasione che andrebbe colta senza indugio e ci auguriamo che sia così. D’altra parte, dopo i tanti tira e molla sulla finanziaria, sarebbe veramente deludente dover assistere, anche sulla Rai, ad un medesimo, disgustoso teatrino di totale inadeguatezza politica e di governo del Paese. A partire dalle sue aziende principali.


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