Venerdì scorso 24 maggio a Budapest la bella stagione era arrivata, ma il piacevole tepore che spinge la gente si tavolini di bar e ristoranti affollati, era turbato da lievi pioggerelline primaverili. Anche nell’aula 2 del Tribunale di Budapest faceva discretamente caldo. Per la prima volta Ilaria Salis ha potuto assistere al giudizio senza le consuete catene e l’arcigna guardia a vista delle teste di cuoio ungheresi. A oltre quindici mesi dal suo arresto, il processo è finalmente entrato nel vivo con l’escussione dei testimoni e la visione delle riprese delle telecamere relative all’aggressione.

 

Va subito detto che dagli elementi forniti nel corso dell’udienza non può essere desunto alcun elemento a favore della colpevolezza di Ilaria. E neanche è stata dimostrata la presunta gravità delle lesioni arrecate all’aggredito che, per permettere l’applicazione della norma invocata dalla Procura ungherese, dovrebbero essere tali da mettere a rischio la vita della vittima. Si registrano inoltre incertezze e ritardi della Corte nella necessaria traduzione in italiano della documentazione processuale, il che comporta la chiara violazione della direttiva europea in materia.

Il giudice investito della causa ha chiesto lumi al Ministro della Giustizia sulle possibili conseguenze della candidatura di Ilaria al Parlamento europeo e si è macchiato di una leggerezza piuttosto grave, rendendo noto l’indirizzo dell’abitazione dove Ilaria, più volte minacciata di morte dalle organizzazioni neonaziste ungheresi, sconterà gli arresti domiciliari, mettendo a repentaglio la sua sicurezza e scatenando quindi le legittime proteste dei familiari preoccupati.

L’insieme di questi elementi rende più che mai indispensabile e urgente il trasferimento di Ilaria in Italia per scontare i domiciliari nel suo Paese fino alla conclusione del processo. Quest’elementare esigenza si scontra con la logica pervicace della Procura ungherese, che si fa interprete obbediente di una preoccupazione governativa relativa essenzialmente alla sua immagine interna, danneggiata da ripetuti scandali che hanno colpito proprio l’amministrazione della giustizia, mettendo a repentaglio la fama di severità imparziale di cui Orban si ammanta, trovando pronti a propalarla non solo i media ungheresi che controlla rigidamente nella quasi totalità, ma anche qualche media italiano e qualche politico di grosso rilievo del nostro Paese.

Ciò conferma la natura fortemente politica del processo e quindi richiede un atteggiamento più attivo e incisivo del governo italiano, che fin qui ha brillato per la sua assenza, condita dalle discutibili affermazioni di Tajani e di Nordio, sostenitori indefessi del “basso profilo”, forse nella fatalistica attesa di un qualche evento soprannaturale salvifico.

La candidatura di Ilaria nelle file dell’Alleanza Verdi Sinistra ha indubbiamente smosso le acque stagnanti del processo, a ulteriore conferma del suo carattere profondamente politico. La concessione degli arresti domiciliari in Ungheria ha costituito un passo avanti sulla strada della giustizia e del diritto per la nostra giovane concittadina, che vive da ormai oltre quindici mesi una vicenda davvero kafkiana. È legittimo interrogarsi sul perché il giudice Joszef Sos, che al termine dell’udienza del 28 marzo aveva deciso di respingere la richiesta di arresti domiciliari, si sia infine deciso ad accoglierla a poco più di un mese di distanza.

Un esame complessivo e spassionato della vicenda induce a riconoscere il ruolo determinante alla volontà della stessa Ilaria, esemplarmente spalleggiata dai suoi familiari, amici, compagni, avvocati e dal fronte di ampiezza crescente che si sta costruendo attorno al suo caso di “alzare il tiro”, riconoscendo fino in fondo la politicità dell’affare. In questo contesto il governo italiano si muove poco e male.

Colpisce infatti la differenza di trattamento tra il caso Salis e quello Forti. Forse una spiegazione di carattere culturale e psicologico è opportuna. Nella parte più profonda della psiche della destra c'è indubbiamente una forte fascinazione per la trasgressione e per il crimine, purché non mettano in pericolo l'ordine costituito che consente a pochi privilegiati una vita invidiabile a spese della sofferenza della maggioranza della società.

Nel mondo alla rovescia, che non è solo il titolo del libro di un candidato della destra, ma la realtà distopica che la stessa destra ci ha regalato, chi ruba per mangiare appare moralmente più riprovevole di chi corrompe, viola norme sociali e ambientali poste a garanzia della sicurezza e della vita dei cittadini. Manettari lorsignori lo sono da sempre, purché si tratti dei polsi giusti. Quindi un’onesta maestra antifascista accusata senza prove di aver partecipato a un pestaggio è meno degna di tutela di un condannato per omicidio premeditato, fermo restando che anche lui ha diritto a scontare la pena nel suo Paese. Si tratta ovviamente di un comportamento inaccettabile alla luce dei nostri principi costituzionali e di quelli della comune civiltà giuridica europea.

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