Come previsto dai sondaggi e come ipotizzabile vista la storia politica degli ultimi 20 anni della Regione, l’Abruzzo resta nelle mani della destra, della quale del resto è sempre stato storicamente un feudo. Le lezioni abruzzesi sono piuttosto semplici da comprendere, la politica spesso è contorta solo per dare modo a tutti di dire la propria, specialmente se non si ha niente da dire.

In Sardegna l’immagine e l’impronta politica della candidata del centrosinistra avevano capitalizzato il voto, riuscendo a battere il ridicolo fascista Truzzu e ad impedire anche l’ennesimo sgambetto degli avanzi avariati di Rifondazione che, con bertinottiana memoria hanno tentato fino all’ultimo di far vincere la destra senza riuscirvi. Altrettanto in Abruzzo, dove il ridotto impatto mediatico del candidato, pure brava persona ma certo visibilmente non avvezzo all’arena politica, è risultato decisivo nella scrittura del risultato finale. Aveva di fronte Marsilio, una vecchia volpe della politica, un marpione capace di gestire da remoto il suo patrimonio elettorale, in una versione molto peggiorata dei tempi di Remo Gaspari.

La sconfitta del centrosinistra ha una dimensione decisamente inferiore a quella pronosticata anche solo alla vigilia del voto in Sardegna, dove nei sondaggi Marsilio staccava di almeno 10 punti il candidato di centrosinistra. La crescita del PD non lascia dubbi: hanno perso Calenda e M5S.

Ovvero, la sconfitta pesa per intero del M5S, il cui tracollo segna esattamente la differenza in voti e percentuale tra campo largo e destra. I pentastellati hanno subito una dura scissione con la sua ispiratrice approdata a Forza Italia (quando si dice la passione politica autentica) e il drenaggio di voti prodotto da una operazione di potere locale e clientelare non poteva certo essere fermato con il famoso carisma guerrigliero di Conte.

Ora c’è la questione dell’allargamento del campo, ovvero di portare dentro tutti, ma proprio tutti quelli che non possono stare a destra. Scelta indispensabile per battere le destra ma che dovrebbe avere una connotazione politica marcata e non sembrare solo forte apache, Così più che un’alleanza si rivela un autobus affollato che non sa quale sia il capolinea, dove tutti coloro i quali se andassero per conto loro non raggiungerebbero il quorum, partecipano perché con la coalizione lo ottengono. E quando si parla di profilo politico culturale che dev’essere lo sfondo di una proposta di governo, regionale o nazionale che sia, nella credibilità politica di chi chiede il voto c’è anche un elemento di coerenza che andrebbe mantenuto: ad esempio non si può fare una campagna elettorale contro il disastro sanitario causato dalla destra, che gli ha tolto denaro e personale, portando in dote il partitino della Bonino che la sanità pubblica vorrebbe addirittura eliminarla.

E pensare che la Bonino non va con la destra perché il suo programma economico è troppo ultraliberista; paradossalmente è troppo più a destra di quello di destra. L’attenzione ai diritti civili completa l’incompatibilità con il melonismo e permette il posizionamento comodo col centrosinistra. Dopo anni e anni d’insistenza, continua ad essere completamente insignificante nel voto popolare.

Idem dicasi per Calenda, che benché goda di una esposizione mediatica straordinaria in rapporto al peso effettivo, comunque eccessiva per la declamazione del nulla, il risultato maggiore che ottiene è quello di operare come fuoco amico nella coalizione, più che di pescare i voti nel campo dei moderati. Ammesso poi che questo campo di moderati non sia effettivamente vivo e in salute, Bonino e Calenda non lo intercettano: sono però funzionali al mantenimento della coalizione su un profilo più possibile moderato ed alla fine ottengono il risultato di renderla ulteriormente indifferenziabile da quella di destra sotto il profilo dei contenuti.

La destra da parte sua opera un processo di cannibalizzazione da parte di Fratelli d’Italia ai danni della Lega. Quest’ultima, come già fece Bossi con Berlusconi e poi Salvini con i 5 Stelle e con Draghi, è destinata a svolgere il ruolo di chi, sedotta, deve abbandonare prima se non vuole essere abbandonata poi. Le prossime europee diranno se l’avventura del genero di Verdini è arrivata al capolinea, ma certo che la crescente guerra sullo spostamento a destra della coalizione non è destina il governo ad un futuro migliore di chi l’ha preceduto.

Ciò che mai dovremmo perdere di vista, però, sono i numeri. E dato il paradosso con cui la destra raccontava di aver vinto in Sardegna (dove invece ha perso con circa il 9% dei voti, considerando Soru non certo lontano dal campo largo), attenti ora a non seguire l’onda mediatica della grande vittoria della destra in Abruzzo. La Meloni esce sconfitta e per diverse ragioni da questa mini tornata; una di queste è quella numerica. Perché un mese fa la destra aveva una regione in più e il centrosinistra una in meno. Oggi il centrosinistra ne ha una in più e la destra una in meno.  Da qui si riparte.

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