Il G7 di Hiroshima si è appena concluso con una serie di impegni ed enunciazioni largamente attesi. Le parole riservate alla Cina, tuttavia, sono sembrate, almeno da questo modestissimo osservatorio, assai poco ancorate con la realtà attuale, nonché con quella degli ultimi decenni.

Nel corposo documento di 40 pagine scopriamo che:

La Cina è accusata di “coercizione economica”. Invito i lettori a tenersi forti perché tale accusa viene mossa da 7 Paesi e da un’istituzione, l’UE, che figurano come i principali sanzionatori economici verso il resto del mondo. Un recente studio del Center for Economic and Policy Research ha rilevato che i soli Stati Uniti, attualmente, sanzionano il 29% dell’economia mondiale, percentuale indubbiamente destinata a salire se consideriamo anche gli altri membri del G7 che si adeguano a Washington. 

 

Le sanzioni economiche sono forse qualcosa di diverso dalla coercizione economica, e politica? Se questa fosse una discussione al Bar dello Sport si direbbe che siamo in presenza del “bue che dà del cornuto all’asino”. Nei salotti eleganti, invece, quei pochi caratterizzati da maggior coraggio utilizzerebbero il termine “ipocrisia”.

La Cina è anche accusata per la sua “crescita militare”. Forse pochi sono al corrente dell’entità dei bilanci militari dei membri del G7 che, cumulati, sono esponenzialmente superiori a quello di Pechino; o che la Cina ha 1 (una) base militare all’estero (Gibuti) mentre l’intero pianeta è letteralmente tappezzato da oltre 1000 (mille) basi militari dei principali membri del G7?

La Cina viene infine - giustamente - accusata di militarizzare il Mar Cinese meridionale. Ma questa accusa non suona un po' assurda quando le flotte dei principali membri del G7 (inclusa, da ultimo, parte di quella italiana che dovrebbe invece preoccuparsi dell’emergenza migranti nel Mediterraneo) pattugliano permanentemente da anni quelle acque che rappresentano, comunque, la principale arteria del commercio e degli approvvigionamenti energetici della Cina? Cosa farebbero i G7 a parti invertite?

Commentando maldestramente gli esiti del G7, il Premier britannico Sunak ha definito la Cina come la principale minaccia alla sicurezza mondiale. Il timore è che i collaboratori di quest’ultimo non lo abbiano informato che salvo qualche scaramuccia lungo il confine con l’India, la Cina non spara un proiettile al di là dei propri confini da 44 anni. Tra i G7 solo il Giappone può fregiarsi di questo primato.

Eppure, le premesse di questo Summit sembravano addirittura incoraggianti.

Qualche settimana fa, infatti, il consigliere per la sicurezza nazionale del Presidente Biden, Jake Sullivan, aveva parlato alla Brookings Institution delineando addirittura un - da lungo tempo auspicato - “rinnovo della leadership economica americana".  

Il suo era stato un intervento coraggioso. Il Financial Times lo aveva definito il discorso del “New Washington Consensus” Quest’ultimo termine è stato coniato nel 1989 dall’economista britannico John Williamson per definire una sorta di modello economico globale post-Bretton Woods che da allora gli Stati Uniti hanno sistematicamente predicato, e sovente imposto, anche con la complicità del Fondo Monetario Internazionale e della Banca Mondiale.

Questo prevede politiche di promozione del libero mercato come la liberalizzazione del commercio internazionale e dei movimenti finanziari nonché il ricorso a massicce privatizzazioni. Esso include anche ricette fiscali e monetarie volte a minimizzare deficit e inflazione. Il Washington Consensus si è rapidamente trasformato - nella costernazione del suo inventore - nel manifesto del neoliberismo; l’autentico manuale della cosiddetta ideologia T.I.N.A. (There Is No Alternative) saldandosi con la nota tesi sulla Fine della Storia di Francis Fukuyama.

Partendo da una prospettiva storica, Sullivan ha esordito affermando sostanzialmente che "...gli Stati Uniti hanno guidato un mondo frammentato [dopo la Seconda Guerra Mondiale n.d.r.] costruendo un nuovo ordine economico internazionale… affrancando centinaia di milioni di persone dalla povertà... propiziando rivoluzioni tecnologiche… ed aiutando l’umanità a raggiungere nuovi livelli di prosperità.”

Gli ultimi decenni hanno tuttavia rivelato crepe in queste fondamenta. L’economia globale, troppo mutevole, avrebbe lasciato nella miseria molti americani. Una crisi finanziaria, quella del 2008, avrebbe scosso eccessivamente la classe media. La pandemia ha quindi messo a nudo la fragilità delle catene di approvvigionamento. Il cambiamento climatico starebbe mettendo a rischio le nostre vite e i relativi mezzi di sussistenza. L’invasione dell’Ucraina, infine, avrebbe sottolineato i rischi di un’eccessiva dipendenza dalle forniture di materie prime dalla Russia. L’insieme di queste crepe renderebbe necessario un nuovo “consenso". 

Sullivan ha quindi identificato quattro sfide fondamentali: 1) l’indebolimento della base industriale americana; 2) un nuovo contesto internazionale definito dalla competizione geopolitica e securitaria; 3) l'accelerazione della crisi climatica con l'urgente necessità di una transizione energetica giusta ed efficiente; 4) la necessità di porre rimedio alle disuguaglianze in quanto rappresentano una danno per la democrazia.

Il suo elenco di quanto sarebbe andato storto negli ultimi decenni è stato ampio e impietoso: il venire meno degli investimenti pubblici sostituiti da tagli fiscali, deregolamentazioni, privatizzazioni e liberalizzazioni del commercio concepite come fini e non mezzi; l’eccessiva fiducia riposta nella capacità dei mercati di allocare i capitali in modo produttivo ed efficiente che alla fine ha spinto "...intere catene di approvvigionamento [statunitensi] di beni strategici...a trasferirsi all'estero"; profonde liberalizzazioni commerciali che non hanno mantenuto la promessa di salvaguardare i posti di lavoro e il know-how industriale dell’America.   

Sullivan ha messo la Cina sul banco degli imputati per aver sfruttato la globalizzazione, operando pratiche commerciali sleali di cui gli Stati Uniti hanno pagato il prezzo. Infine, ha lamentato l’eccessiva attenzione riservata alla finanziarizzazione a discapito dell’economia reale, principalmente i settori dei semiconduttori e le infrastrutture.  

Sulla competizione geopolitica e securitaria, Sullivan ha osservato mestamente che la premessa che l'integrazione economica avrebbe reso le nazioni più responsabili e aperte e che ne sarebbe risultato un ordine globale più pacifico e cooperativo non ha trovato riscontro nella realtà. Un esito ovviamente attribuito a Cina e Russia. 

La prima per essersi integrata nell'ordine economico internazionale mantenendo un’economia non di mercato con forti sovvenzioni distorsive sia nei settori industriali tradizionali che in quelli nuovi, come l'energia pulita e le infrastrutture digitali. La seconda, ovviamente, per aver invaso l'Ucraina.

Questi due paesi rappresenterebbero quindi una doppia sfida, resa ancora più grave dalle dipendenze (energetiche e manifatturiere) nei loro confronti create da decenni di liberalizzazioni e de-localizzazioni che hanno determinato incertezza energetica e vulnerabilità della catena di approvvigionamento in settori critici come i semiconduttori e i minerali strategici e che potrebbero essere utilizzati in modo coercitivo. 

In parole povere, gli Stati Uniti ora rifiutano il neoliberismo e il suo strumento abilitante, la globalizzazione, e propongono un nuovo approccio.

Per quanto riguarda le disuguaglianze, infine, Sullivan ha coraggiosamente lamentato: "decenni di politiche economiche a cascata [la cosiddetta trickle-down economy, uno dei sacramenti del neoliberismo, n.d.r.]” ... Tagli fiscali regressivi e tagli profondi agli investimenti pubblici, concentrazioni aziendali incontrollate e misure attive per minare il movimento operaio" che "hanno profondamente indebolito le basi socioeconomiche su cui poggia qualsiasi democrazia forte e resiliente".

Il discorso di Sullivan a tratti è apparso così netto che per riassumerlo in una frase si potrebbe dire "Ci rendiamo ora conto che tutto quello abbiamo fatto e detto negli ultimi decenni era sbagliato". Coraggioso indubbiamente, anche se è lecito dubitare che possa suonare consolatorio per le centinaia di milioni di persone (stima per difetto ovviamente) che ne sono risultate danneggiate.

La ricetta che ora viene offerta da Washington per correggere tutto quello che è andato storto negli ultimi anni è "una moderna strategia industriale americana [che, n.d.r.] ...identifica settori fondamentali per la crescita economica, [nonché, n.d.r.] strategici dal punto di vista della sicurezza nazionale...". I semiconduttori sono in cima alla lista. "L'America ora produce circa il 10% dei semiconduttori mondiali...[determinando, n.d.r.]…un rischio economico critico e una vulnerabilità della sicurezza nazionale". 

A questi si aggiungono i minerali strategici, le cosiddette terre rare, "la spina dorsale del futuro dell'energia pulita". Sullivan rileva che "...oltre l'80% dei minerali strategici viene lavorato da un solo paese, [la Cina, n.d.r.]" e che "Le catene di approvvigionamento di energia pulita rischiano di essere utilizzate coercitivamente [dalla Cina] allo stesso modo del petrolio negli anni 1970 e del gas naturale in Europa nel 2022".  Si tratta di una condizione inaccettabile per Washington.

Semiconduttori, minerali strategici e alcune tecnologie avanzate dovrebbero quindi essere salvaguardati in un "piccolo cortile con un’alta recinzione" per mantenere unicamente il vantaggio tecnologico degli Stati Uniti sulla Cina, frenarne l’ascesa militare, e non - insiste Sullivan - per limitarne la crescita. 

Il successo della strategia USA dipenderebbe anche dai suoi partners: Europa, Canada, Giappone, Corea del Sud e Taiwan. Forse l’India. Il messaggio di Sullivan è stato quindi perentorio: "Perseguiremo senza remore la nostra strategia industriale in patria, ma siamo inequivocabilmente impegnati a non lasciare indietro i nostri amici. Vogliamo che si uniscano a noi.  In effetti, abbiamo bisogno che si uniscano a noi".

Per gli standard dell’establishment di politica estera e di sicurezza statunitense, il discorso di Sullivan è stato quasi rivoluzionario. Molto meno, purtroppo, se il suo scopo era quello di conquistare cuori e menti nel Sud del mondo verso l’accettazione di nuove regole americane per un ordine mondiale auspicabilmente migliore.

Da questo punto di vista, il suo enunciato si è rivelato troppo ambizioso e un po' sconnesso dalla realtà. Non è chiaro se sarà in grado di fugare alcune perplessità europee sul nuovo corso USA mentre appare chiaramente fuori sintonia con l’attuale riallineamento geopolitico e geoeconomico globale. Troppo ambizioso perché l'America è in una traiettoria declinante.

È estremamente divisa e tale tendenza è in aumento; potrebbe presto sconfinare in una guerra civile in occasione delle prossime elezioni presidenziali del 2024; il 6 gennaio 2021 in fin dei conti sarebbe stata solo una prova generale di qualcosa assai peggiore.  In poche parole, l’America riesce a malapena a ispirare all'interno dei suoi confini, figuriamoci all'esterno. Il filosofo britannico John Gray ha recentemente osservato che "l'idea che una nazione ora così irrimediabilmente divisa possa costruire un nuovo ordine internazionale è inverosimile.  

Niente di meglio della rinnovata saga politica interna degli Stati Uniti sul tetto del debito - che, per inciso, potrebbe far precipitare un'altra crisi finanziaria globale - esemplifica tale concetto. È appena il caso di evidenziare che la crisi sul tetto del deficit USA è solo la punta dell'iceberg di questa divisione interna statunitense.

Sconnesso dalla realtà perché l'America fatica come non mai ad ispirare fiducia. Rafforzare quest’ultima sulla capacità di rinnovamento della leadership economica americana implica più risolutezza e meno compromessi con il recente, imbarazzante, passato.

L’indebolimento industriale americano non è stato la risultante dell'eccessiva fiducia attribuita al potere ri-equilibrativo del mercato, o delle pratiche commerciali sleali della Cina, ma dell'avidità dell’imprenditoria statunitense che è stata incoraggiata e facilitata da tutte le amministrazioni americane da Ronald Reagan in poi. Le imprese USA hanno de-localizzato intere catene industriali in Asia per sfruttare costi del lavoro molto più bassi e realizzare maggiori profitti.

Così facendo hanno espulso dal mercato del lavoro milioni di lavoratori americani. Le risposte a questo dramma sono state il Tea Party e Donald Trump alla Casa Bianca. Sciaguratamente, questi enormi profitti non sono stati investiti né per migliorare la competitività delle imprese né per mantenere il loro primato tecnologico in settori cruciali.

Allo stesso tempo, le ultime tre amministrazioni statunitensi (Bush II, Obama, Trump) hanno speso 7.000 (settemila) miliardi di dollari per guerre senza fine in Medio Oriente, in Afghanistan e contro il terrorismo risoltesi in fallimenti clamorosi, tralasciando peraltro il decadimento delle infrastrutture del paese. Le agevolazioni fiscali per le imprese che l’Amministrazione Trump ha varato dopo essersi insediata (1000 miliardi di dollari) sono state sprecate in riacquisti delle stesse azioni delle compagnie per gonfiarne speculativamente il valore e per bonus scandalosi per il top management, spesso remunerato proprio con delle stock options.

La Cina potrebbe aver senza dubbio usato la globalizzazione con pochi scrupoli, ma almeno lo ha fatto per il bene di tutta la sua popolazione: 800 milioni di persone sono state affrancate dalla povertà estrema in soli tre decenni. Gli Stati Uniti l’hanno invece usata solo per l'1%, o addirittura lo 0,1%, della propria popolazione.

Per quanto riguarda l’uso coercitivo delle catene di approvvigionamento, nei primi anni 1970 i produttori di petrolio ne hanno incrementato il prezzo per protestare contro specifiche politiche statunitensi in Medio Oriente. Per quanto riguarda il gas russo nel 2022, invece, è stata l'Europa a decidere - legittimamente - di non volersene più avvalere. Poi, ogni dubbio residuo sulla bontà e la sostenibilità economica di tale scelta, è stato cancellato facendo saltare i gasdotti North Stream.

Per finire, se c’è stato un Paese che negli ultimi decenni ha sistematicamente praticato la coercizione economica quello sono stati gli Stati Uniti attraverso le loro sanzioni unilaterali globali, che, come ho ricordato sopra, secondo uno studio appena pubblicato, hanno colpito il 29% dell'economia mondiale.

L'establishment americano e i suoi media mainstream hanno rimosso queste verità scomode, ma i paesi del Global Rest e del Global South certamente no. La narrativa degli Stati Uniti su un New Washington Consensus come strumento per vincere la presunta battaglia in corso tra democrazia e autocrazia non sembra convincente. Global Rest e Global South tendono a vederla come una competizione tra ipocrite Oligarchie occidentali e repressive e Autocrazie orientali. Decisamente non è un ventaglio di opzioni stimolanti. 

La probabile e cinica conclusione del Global Rest/Global South potrebbe essere la seguente: "Le regole del gioco erano buone quando hanno permesso agli Stati Uniti e all'Occidente globale di vincere e dominare, ma ora che tale egemonia sta diventando incerta le regole devono cambiare". Non dovrebbe sorprendere, quindi, se molti paesi preferiscano defilarsi da questa competizione tra grandi potenze e aspettare l’evoluzione della situazione. Questo defilamento implica che questi stessi Paesi restano scettici a propositivo della narrativa occidentale sul conflitto in Ucraina e, a maggior ragione, riluttanti ad adottare sanzioni contro Mosca e, in subordine, contro Pechino. Per citare un apprezzato ex alto funzionario dell’Amministrazione Trump, Fiona Hill, gli stati del Global Rest/Global South "Vogliono decidere, non sentirsi dire cosa è nel loro interesse".

E’ plausibile quindi che potrebbe non esserci abbastanza consenso sul "New Washington Consensus", sia all'interno che all'esterno dell'America. Gli europei continuano a diffidare dei massicci sussidi statunitensi per la transizione energetica. Le restrizioni sui semiconduttori verso la Cina, contrariamente a quanto affermato da Sullivan, sono tutt'altro che mirate.

A giudicare dai fondi stanziati dall’Amministrazione Biden per il CHIPS Act, nonché dai massicci investimenti che il settore richiede, l'impressione è che gli Stati Uniti si accingano ad usare un pugnale per quella che si profila come una sparatoria. 

Nonostante il lodevole sforzo di Jake Sullivan, il problema principale di Washington resta il persistente divario tra le parole che pronuncia e le azioni che intraprende. Anche se l'attuale amministrazione americana dovesse riuscire a varare nuove regole globali, permarrebbe l’incombente percezione che - analogamente a quanto accaduto negli ultimi tre decenni - queste verrebbero applicate in modo parziale, privilegiando gli interessi americani e occidentali.

Il deficit di empatia cognitiva che Washington mantiene nei confronti del Global Rest e del Global South appare insormontabile, e rappresenta una fonte primaria di sfiducia. La lenta ma costante erosione del dollaro USA come valuta di riserva globale è un altro inquietante campanello d'allarme. 

L'ultimo avvertimento è arrivato sempre da Fiona Hill, che è arrivata al punto di definire la guerra in Ucraina "l’occasione per una ribellione da parte della Russia e del Resto del mondo contro gli Stati Uniti". 

Il discorso del consigliere per la sicurezza nazionale degli Stati Uniti è stato incoraggiante, ma ancora non sufficiente. Il G7 di Hiroshima avrebbe potuto essere l’occasione per propiziare un ulteriore salto di qualità. Era un onere che incombeva soprattutto sugli europei. Purtroppo, il Summit si è rivelato l’ennesima occasione mancata.

Fonte: Dagospia

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