Il crollo improvviso del governo di Damasco ha innescato un vivace dibattito sulle cause profonde dell’instabilità che da anni affligge la Siria.

Mentre alcuni attribuiscono questa situazione più che precaria a pressioni esterne, come le sanzioni occidentali e la natura autoritaria del governo, un fattore critico rimane sottovalutato: le politiche neoliberiste implementate durante la presidenza di Bashar al-Assad. Queste riforme incentrate sulla liberalizzazione del mercato, presentate come strumenti di crescita e modernizzazione, hanno invece alimentato un diffuso malcontento tra i siriani, indebolito le strutture sociali e spianato la strada all’ascesa di gruppi estremisti.

Il contesto delle politiche neoliberiste

Per comprendere l’impatto di queste politiche, è essenziale esaminare il contesto in cui sono state introdotte. Durante la presidenza di Hafez al-Assad, iniziata nel 1971, il Partito Ba’ath costruì uno stato sociale completo, focalizzato sulla produzione nazionale e sui servizi pubblici. Nonostante il carattere autoritario del governo, questo approccio generò benefici tangibili, come l’assistenza sanitaria gratuita e l’istruzione garantita fino all’università.

 

L’enfasi sulla produzione agricola promosse inoltre l’autosufficienza nei raccolti strategici, mantenendo bassi i prezzi dei beni essenziali. Questa stabilità sostenne la coesione sociale, garantendo a milioni di siriani un livello minimo di sicurezza economica. Sebbene limitato in alcuni aspetti, il welfare offriva una certa sicurezza, contribuendo a una società relativamente coesa.

Tuttavia, con l’arrivo al potere di Bashar al-Assad nel 2000, la Siria abbandonò il modello di stato sociale per abbracciare riforme economiche neoliberiste mirate a integrare il paese nell’economia globale.

Le riforme economiche e le loro conseguenze

Queste riforme includevano l’apertura dei mercati al commercio estero, una drastica riduzione delle restrizioni alle importazioni e la privatizzazione delle imprese statali. Tra il 2000 e il 2007, il numero di beni soggetti a restrizioni all’importazione scese da 3.000 a soli 100, evidenziando il nuovo orientamento della Siria verso un’economia di mercato pensata per attrarre investitori stranieri. Tuttavia, ciò espose le industrie locali alla competizione internazionale, mettendone a nudo inefficienze di lunga data.

La riforma del settore bancario accelerò questa transizione. Nel 2001, l’introduzione della legge sulle banche private permise la nascita di nuovi istituti privati con capitali stranieri, trasformando radicalmente il panorama finanziario del paese. Entro il 2018, la Siria ospitava 14 banche private, molte delle quali con significative partecipazioni estere. Questo cambiamento, progettato per stimolare l’economia, non portò i risultati sperati in termini di crescita.

Anche il settore agricolo subì una liberalizzazione controversa. Le fattorie statali, collettivizzate durante l’era di Hafez, furono privatizzate, portando a una forte concentrazione della proprietà terriera. Entro il 2008, appena il 28% degli agricoltori controllava il 75% delle terre irrigate, mentre quasi la metà possedeva solo il 10%. Questo processo devastò la forza lavoro agricola, ridotta del 40% tra il 2002 e il 2008.

Il settore sanitario non fu immune dalle riforme neoliberiste, con un marcato spostamento verso la commercializzazione, avviato dal Programma di Modernizzazione del Settore Sanitario sostenuto dall’UE nel 2003. La qualità e la disponibilità dei servizi pubblici si deteriorarono e costrinsero molti siriani a rivolgersi al settore privato. La spesa sanitaria pubblica della Siria scese a un misero 0,4% del PIL prima del 2010, contro una media globale del 5-12,5%.

La seconda ondata di riforme neoliberiste

Una seconda ondata di riforme iniziò nel 2005, dopo consultazioni con il Fondo Monetario Internazionale (FMI) e la Banca Mondiale. Tra queste, tagli drastici ai sussidi provocarono nel 2008 un aumento del 257% dei prezzi del diesel. L’impennata dei costi di produzione costrinse molti agricoltori a migrare verso le città in cerca di lavoro, mentre i settori industriali soffrirono contraccolpi simili. Di conseguenza, i beni essenziali divennero inaccessibili per molti, alimentando inflazione e precarietà economica diffusa.

Un’agenda che aggrava le disuguaglianze

L’agenda neoliberista avvantaggiò l’élite e gli investitori stranieri, in particolare dalle monarchie del Golfo, ma rappresentò un peso significativo per la maggioranza della popolazione. Le riduzioni delle aliquote fiscali per imprese e profitti individuali nel settore imprenditoriale acuirono le disuguaglianze, aggravate da una cronica evasione fiscale.

Le politiche economiche di Bashar al-Assad alimentarono così una povertà senza precedenti, nonostante il PIL crescesse del 4,3% annuo tra il 2000 e il 2010. Tali guadagni economici beneficiarono solo una ristretta élite: il PIL aumentò più del doppio, passando da 28,8 miliardi di dollari nel 2005 a circa 60 miliardi nel 2010. Nel 2007, il 33% dei siriani viveva sotto la soglia di povertà, con un ulteriore 30% appena al di sopra.

La destabilizzazione sociale

Il passaggio dai settori pubblici a quelli privati dimostrò l’incapacità delle riforme di mercato di garantire equità sociale. Le politiche neoliberiste smantellarono gran parte dello stato sociale, con il risultato della destabilizzazione della società siriana.

Le riforme, ideate per modernizzare la Siria e integrarla nell’economia globale, finirono per minarne la stabilità. La riduzione dei sussidi, le privatizzazioni e le politiche orientate al mercato erosero i servizi pubblici, concentrando la ricchezza e ampliando i divari sociali. Questo diffuso senso di esclusione alimentò l’ascesa di ideologie estremiste e ha in una certa misura contribuito al crollo del governo di Assad.

Per stabilizzare il futuro della Siria, sarà dunque cruciale una rivalutazione generale delle politiche neoliberiste.

 

di Seyed Yasser Jebraily

Fonte: Tehran Times

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