Gli stravolgimenti degli equilibri strategici in Medio Oriente procedono a passo spedito nonostante l’opposizione degli Stati Uniti a dinamiche che minacciano la loro posizione dominante nella regione. I nuovi scenari trovano il proprio motore soprattutto nelle iniziative dell’Arabia Saudita, legate in buona parte al rafforzamento delle posizioni di Cina e Russia in Asia occidentale, e incidono in primo luogo sui rapporti con l’Iran e sulla situazione siriana. Gli sviluppi più recenti in questa direzione sono stati la conferenza di Amman proprio sulla Siria e la notizia del possibile dialogo in corso tra i sauditi e Hezbollah in Libano.

 

Nel primo caso, i ministri degli Esteri di Arabia Saudita, Egitto, Giordania, Iraq e Siria si sono riuniti nella capitale giordana per discutere appunto della crisi nel paese in guerra dal 2011. La dichiarazione congiunta emessa lunedì al termine dei lavori ha nuovamente confermato l’intenzione dei regimi sunniti di mettere da parte le mire su Damasco che puntavano al rovesciamento del governo del presidente Assad. I cinque ministri hanno espresso il loro “sostegno alla Siria e alle sue istituzioni”, al fine di consentire al governo di “ristabilire il controllo su tutto il territorio” e di imporre su di esso la propria autorità legale.

In un passaggio determinante, i rappresentanti dei paesi coinvolti nella conferenza hanno poi chiesto la fine delle “interferenze straniere negli affari interni della Siria” e il ritiro di tutti i “gruppi armati” presenti in questo paese. Il riferimento non è solo alle “organizzazioni terroristiche” che ancora operano nel nord-ovest, in parte sotto la protezione della Turchia, ma anche al contingente americano stanziato illegalmente nelle aree nord-orientali a fianco delle milizie curde.

L’obiettivo è dunque di impedire che queste formazioni armate continuino a “minacciare la sicurezza regionale e internazionale”. Per affrontare queste sfide, Arabia Saudita, Egitto, Giordania e Iraq si propongono di stabilire legami con le forze armate e gli organi deputati alla sicurezza della Siria. Nella stessa dichiarazione ufficiale è presente anche un riferimento alla creazione di “team di esperti” incaricati di implementare misure pratiche in linea con le decisioni del summit e per favorire la risoluzione del conflitto siriano.

Nel complesso, l’evento ospitato dalla Giordania segna un’altra tappa verso il superamento delle politiche del confronto, anche armato, nell’approccio alla questione siriana, ovvero lo sganciamento dagli Stati Uniti e dai piani di Washington, fatti di sanzioni e sostegno materiale ai gruppi armati dell’opposizione. La tendenza in atto è al contrario di normalizzare i rapporti con un governo di Damasco tornato a controllare gran parte del proprio territorio e relativamente stabilizzato grazie all’intervento militare della Russia.

Il diffondersi di un atteggiamento pragmatico anche tra coloro che fino a poco tempo fa figuravano tra i rivali più feroci di Assad è in atto da ormai da qualche anno, ma ha trovato un impulso probabilmente decisivo in seguito alle decisioni di Riyadh. La svolta era avvenuta a inizio marzo con l’inaugurazione del nuovo corso diplomatico tra Arabia Saudita e Iran grazie alla mediazione cinese. Questo cambiamento di rotta non è stato tuttavia un evento improvviso o isolato, ma la conseguenza di un riassestamento complessivo degli equilibri regionali, su cui hanno influito, tra l’altro, la guerra in Ucraina, l’espansione dei progetti commerciali e infrastrutturali cinesi, gli ambiziosi piani di ammodernamento dell’economia saudita e il consolidamento della partnership energetica tra Riyadh e Mosca in sede OPEC(+).

Riguardo ancora alla Siria, l’esito del vertice di Amman segue una ormai lunga serie di incontri e negoziati bilaterali che stanno gettando le basi per il ritorno a tutti gli effetti del governo di Assad nei giochi della diplomazia regionale. Gli Emirati Arabi erano stati i primi a rompere il ghiaccio ristabilendo normali relazioni con Damasco qualche anno fa, ma è appunta la recente decisione saudita di mettere da parte le mire anti-siriane dell’ultimo decennio ad avere fatto la differenza. Qualche settimana fa, così, il ministro degli Esteri siriano, Faisal al-Mekdad, era stato ricevuto a Riyadh, da dove la casa regnante aveva invocato apertamente la difesa dell’integrità territoriale della Siria. Pochi giorni più tardi, il capo della diplomazia saudita era stato invece ricevuto a Damasco dal presidente Assad.

L’evoluzione strategica saudita non sembra porsi limiti, come testimonia la notizia di qualche giorno fa sul tentativo di Riyadh di stabilire una linea di dialogo con il partito-milizia sciita libanese Hezbollah. Il “Partito di Dio” è tradizionalmente il fulcro della fazione anti-saudita (e anti-israeliana) nella società e nel sistema politico ultra-settario del paese dei cedri. Allo stesso tempo, almeno fino al recente passato, una più o meno tacita intesa tra i partiti rivali e i loro sponsor stranieri aveva garantito una qualche stabilità al Libano, mentre a partire dalle elezioni del maggio 2022 persiste una situazione di stallo anche a causa delle tensioni crescenti a livello regionale.

Il nuovo clima che si respira in seguito al ristabilimento delle relazioni tra Arabia Saudita e Iran potrebbe avere ora effetti anche sul Libano. Nel fine settimana, il quotidiano libanese Al-Akhbar ha scritto che un esponente del governo di Riyadh avrebbe preso contatti con personalità politiche libanesi “da una capitale europea” per trasmettere a Hezbollah il messaggio che la monarchia auspica l’apertura di un qualche dialogo “in tempi brevi”. Fonti anonime a Beirut, sostiene il giornale libanese, hanno rivelato che le eventuali discussioni tra le due parti sarebbero condotte “attraverso un intermediario”.

Ad ogni modo, gli eventuali frutti di una distensione anche tra Arabia Saudita e Hezbollah si vedrebbero quasi certamente nell’elezione del nuovo presidente del Libano, senza una guida al vertice dello stato dallo scorso ottobre, ovvero dalla fine del mandato di Michel Aoun, per via del mancato accordo tra i vari partiti che rappresentano le comunità cristiana, musulmana sciita e sunnita. Una decina di sessioni parlamentari si sono finora concluse con un nulla di fatto a Beirut e ad oggi sembra non esserci nessun accordo in vista sul possibile candidato. Hezbollah e gli alleati del partito sciita Amal spingono per Suleiman Franjieh, leader del partito cristiano Marada e vicino a Damasco, mentre sul fronte opposto si cerca una soluzione che potrebbe portare alla presidenza il capo delle forze armate Joseph Aoun, gradito a Stati Uniti, Israele e Arabia Saudita.

Nelle ultime settimane circolava un’ipotesi, promossa dal governo francese, che prevedeva l’elezione di Franjieh alla presidenza e l’assegnazione della carica di primo ministro a una personalità accettabile per Riyadh. A respingere l’offerta sarebbe stato però proprio il regime saudita. Se la notizia del possibile dialogo tra Arabia Saudita e Hezbollah dovesse essere confermata, è estremamente probabile che uno dei primi risultati potrebbe essere quindi lo sblocco della crisi politica in Libano. Le due parti non si parlano, almeno a livello ufficiale, da sedici anni, anche se qualche mese fa si era parlato di un incontro informale a Beirut tra membri di vertice di Hezbollah e una delegazione saudita, durante il quale erano stati discussi i termini per il prolungamento di una tregua in Yemen e la rimozione dal suo incarico del presidente-fantoccio yemenita Abd Rabbuh Mansour Hadi.

Il già citato articolo di Al Akhbar spiega che, “al di là del successo o del fallimento dell’approccio saudita [a Hezbollah]”, l’iniziativa “rispecchia la nuova fase” della diplomazia di Riyadh per “rimescolare i rapporti regionali”, così da reimporre la propria leadership nel mondo arabo. L’incognita principale è rappresentata dagli Stati Uniti, che riguardo alla Siria insistono nel respingere qualsiasi apertura e restano fedeli alla politica del cambio di regime. Oltre a Washington, anche Israele vede con orrore la normalizzazione tra Arabia Saudita e Iran, così come tra Riyadh e Damasco o, ancora peggio, Hezbollah. Il regime sionista sta vedendo d’altra parte sfumare l’allineamento anti-iraniano con le monarchie del Golfo che sembrava potersi concretizzare dopo il lancio dei cosiddetti “Accordi di Abramo” da parte dell’amministrazione Trump.

Una delle reazioni a queste dinamiche continuano a essere i bombardamenti illegali contro obiettivi in Siria, ufficialmente per interrompere il traffico di armi dalla Repubblica Islamica e da Hezbollah verso il governo di Assad. Proprio nella notte di lunedì si sono registrati gli ultimi attacchi aerei, questa volta contro l’aeroporto internazionale di Aleppo, punto di riferimento per gli aiuti diretti in Siria dopo il terremoto di febbraio e colpito già per la terza volta nelle ultime settimane dai caccia dello stato ebraico.

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