di mazzetta

Nel nostro paese l’Afghanistan ha l’immagine di un giornalista liberato che esce esultando dall’aereo che lo ha riportato in patria. Nel nostro paese il dibattito sull’Afghanistan si riduce a una squallida lotta ad uso interno, ora strumentalizzando la morte di un afgano che non abbiamo saputo proteggere, ora mettendo sul banco degli imputati Emergency, mentre i soliti sciacalli premono perché i nostri soldati combattano ed uccidano, dimostrando agli alleati che anche il paese dove prosperano questo genere di imbecilli ha gli attributi. L’avventura in Afghanistan era cominciata all’indomani del 9/11, quando l’America ferita decise di farla finita con i “terroristi” che essa stessa aveva allevato come serpi in seno in funzione antisovietica. All’epoca fonti affidabili dell’intelligence americana valutavano tra i cinquemila ed i diecimila uomini il nucleo che faceva riferimento ad “al Qaeda” e soci. Per sgominare il mostro si decise di invadere l’Afghanistan e di cacciare il regime talebano il quale, oltre ad ospitare i qaedisti, aveva condotto il paese nelle braccia di un medioevo anacronistico. L’invasione, pur preparata in fretta, fu facile. L’Alleanza del Nord non dovette far altro che occupare il territorio abbandonato dai talebani, inseguiti fino ai confini del Pakistan dai colpi dell’aviazione americana. Gli americani però mancarono i due principali obiettivi, i due “terroristi” più ricercati: il mullah Omar fuggì in motorino, mentre Osama Bin Laden era già altrove quando gli americani vomitarono tutta la loro potenza di fuoco sulle caverne di Tora Bora.

Sgomberato il terreno poterono arrivare gli “alleati”, l’ONU e la massa incredibile di ONG al seguito dell’intervento “umanitario”. Vincere i cuori e le anime (hearts and souls) degli afgani non sembrava difficile. Migliorare le loro condizioni di vita e offrire loro qualcosa di meglio del medioevo non sembrava un’impresa. A conti fatti l’equivalente del Piano Marshall, per un piccolo ed arretrato paese come quello afgano, sarebbe costato quattro spiccioli; mancando di tutto gli afgani sarebbero stati contenti con poco. Fu qui che l’operazione che a molti era sembrata “giusta” declinò invece nell’ennesima rapina ai danni dei contribuenti dei paesi ricchi, giocata sulla pelle dei poveri afgani.

Insomma non arrivò nessun piano Marshall; furono in realtà stanziati denari sufficienti venti volte di più, ma pochissimi di quei dollari si trasformarono in qualcosa di utile per la popolazione. Gli americani, a dispetto dell’alleanza e degli alleati decisero la linea. A reggere il governo un loro fedelissimo, assistito da ministri nominalmente afgani scelti tra gli oppositori dei talebani, nominati però in ministeri gretti e controllati da americani o, ancora peggio, dai nuovi “amici” pachistani. Era il 2001 e l’invasione era benvenuta dalla popolazione, decisamente stanca del rigido governo talebano. Poi successe che Washington decise di invadere l’Iraq, che nulla aveva a che fare con il “terrorismo” qaedista e molto a che fare con gli interessi dei Friend’s of Bush e l’Afghanistan venne dimenticato e lasciato alla mercé di questa eterogenea compagnia di giro, complice il colpevole silenzio degli alleati.

L’Afghanistan venne dimenticato da tutti, anche dall’ONU e dai paesi volonterosi, troppo preoccupati nel tener dietro all’attivismo bellico americano per preoccuparsi del destino di qualche milione di poveri montanari. Così non solo gli Stati Uniti, ma tutti gli alleati, finirono per mancare ogni solenne impegno di assistenza al martoriato paese. L’Italia, che si era assunta (non si sa perché) il compito di rimettere in piedi il sistema giudiziario afgano, ha fatto per sua parte quello che hanno fatto gli altri: nulla. L’unica infrastruttura costruita in oltre cinque anni è la strada Kabul-Kandahar, che è venuta peggio dell’autostrada siciliana inaugurata da Berlusconi e chiusa il giorno dopo; anche se è stata costruita da un’azienda americana, che come un qualsiasi sub-appaltante mafioso si è fatta pagare oro per costruire una strada di fango.

Decine, centinaia di ONG presenti a Kabul cominciarono a ridurre i loro impegni, stante l’impossibilità di operare nel caos, fino a che non rimasero quasi esclusivamente quelle ONG che Condoleeza Rice aveva ricondotto sotto l’ombrello del Dipartimento di Stato ed arruolato nella war on terror come se fossero branche dell’esercito o, meglio, del dispositivo bellico statunitense. Dopo un solo anno il presidente Karzai già era definito “il sindaco di Kabul”, visto che fuori dalla capitale, nelle province, comandavano i signori della guerra e con loro la corruzione e l’arbitrio del più forte. L’unica fonte di reddito per gli afgani tornò ad essere l’oppio; quasi sparita durante l’oscurantismo talebano, la sua produzione batte ogni record anno dopo anno, a partire da quello seguente all’invasione.

Distratti dall’Iraq gli americani non considerarono gli allarmi del loro ambasciatore, l’esperto Khalilzad, (poi chiamato a tentare l’impossibile dialogo in Iraq) che avvertì per tempo che il disastro era alle porte. Impensabile controllare l’Afghanistan lasciando fuori i Pashtun, esattamente come era impensabile concepire “portare la democrazia” in Iraq senza consegnare il potere alla maggioranza sciita; ma la scelta di Bush e soci fu proprio quella di emarginare la maggioranza etnica, in Afghanistan come in Iraq. C’è chi pensa che si tratti di stupidità e chi invece parla di un disegno cosciente, visto che il ridotto impegno militare (l’unico compatibile con un warfare moderno che rende impossibile la guerra totale per le “democrazie occidentali”) consentirebbe il controllo dei paesi invasi solo a condizione di avere a che fare con una popolazione divisa, meglio ancora se impegnata in lotte intestine all’ultimo sangue.

Quali che siano i motivi che hanno determinato la situazione, gli stupidi politici che reggono il nostro imbarazzante paese hanno accettato questo gioco fino in fondo. Ora pagano il prezzo della loro insipienza, pagano il prezzo di aver potuto vedere il disastro avvicinarsi e di non aver fatto nulla per evitarlo; erano troppo impegnati a buttarsi fango l’uno con l’altro per accorgersi del fallimento che loro stessi contribuivano a determinare. L’anno scorso i talebani alzarono la testa e videro che erano di nuovo forti e di nuovo accettati dalla popolazione, stanca delle promesse non mantenute e dell’assoluta incertezza del diritto, della mancanza di servizi minimi e delle grandi ingiustizie che si consumano davanti ai loro occhi. Nell’anno in corso gli Usa hanno scatenato una grande offensiva con lo scopo di evitare la tradizionale “offensiva di primavera” dei guerriglieri montanari.

Una offensiva che ha già provocato migliaia di morti, ma che nel nostro paese non interessa a nessuno, tanto che non se ne parla proprio. I nostri leader sono troppo impegnati a rinfacciarsi le rispettive manchevolezze, a discutere di legge elettorale, o a confrontarsi con i preti talebani vaticani per rendersi conto di quello che succede veramente in Afghanistan. In Afghanistan succede un massacro e il nostro paese avrebbe già perso la faccia se non fosse per l’altissimo grado di responsabilità dei nostri militari, di associazioni come Emergency e per i provvidenziali limiti che la nostra Costituzione pone all’irrefrenabile desiderio di alcuni di fare gli eroi spendendo le vite degli altri. Poche settimane fa Karzai ha pianto di fronte a una platea di studenti. Ha pianto accusando gli alleati pachistani di voler schiavizzare gli afgani e gli americani ed i loro alleati di avere una sola risposta al disastro nel suo paese, quella militare. Ha pianto, lui che regge l’Afghanistan su precisa indicazione di Washington, perché è cosciente del disastro e della disillusione del suo popolo.

Il pianto di Karzai non ha scosso nessuno, non ce lo hanno mostrato. Così siamo a discutere di sciocchezze, di un giornalista che torna esultante dal teatro di una tragedia perché ha salvato la pelle e discettare se nel salvarlo si poteva far di meglio, salvando anche il suo compagno di sventura afgano. Così impegniamo le nostre scarse risorse in baruffe da osteria, con alcuni poveretti che non trovano di meglio che prendersela con Emergency ed altri poveretti incapaci di dire chiaro e tondo che siamo nei guai fino al collo per colpa di una classe politica che scambia l’alleanza con gli USA per muto servilismo. In conseguenza di ciò, nessuno dirà mai che il disastro in Afghanistan non è colpa dei talebani, ma di chi ha retto la coalizione dei “volenterosi” con lo stesso acume e la stessa tensione etica con la quale ha condotto la War on Terror fino al fallimento completo.

Il nostro paese non è stato tradito da forze oscure e non ha tradito il suo impegno verso il governo Karzai. Il nostro paese è stato tradito (insieme al popolo afgano) da una banda di bugiardi criminalmente aggressivi ed incapaci di concepire una politica oltre il ricorso alle armi; dove il nostro paese ha mancato i suoi impegni è nel realizzare le “promesse” e gli impegni assurdi presi da Berlusconi, ma in questo caso stupirebbe il contrario. Una banda di bugiardi alla quale quasi tutta la nostra classe politica si è associata acriticamente, proteggendosi con un robusto strato di disinteresse verso quello che negli ultimi cinque anni è successo in Afghanistan. Un disinteresse che ora paghiamo a caro prezzo, cercando ovunque un capro espiatorio sul quale scaricare la responsabilità, visto che nessuno ha il coraggio necessario per denunciare il miserabile fallimento del grande amico americano.

Sarà curioso vedere a chi daranno la colpa dopo che Gino Strada avrà abbandonato il paese, con chi se la prenderanno i guerrieri de noantri, irriducibili portatori di civiltà che non hanno mai posseduto; per il resto il destino dell’Afghanistan è tutto già scritto da almeno tre anni, bastava saper leggere per capire che sarebbe finita così.

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