Sul tavolo del Cremlino le diplomazie dei due paesi hanno allineato una serie di dossier sui temi della cooperazione energetica e commerciale. Tutto questo perché l’arrivo a Mosca del presidente cinese Hu Jintao (che ricambia il viaggio di un anno fa, a Pechino, di Putin) offre una nuova occasione per rafforzare i contatti tra le due grandi potenze che vengono a trovarsi – in un contesto di grandi ed importanti fermenti politici - sempre più vicine e concordi quanto ad atteggiamenti sulla conduzione della politica internazionale. Primo e concreto risultato, comunque, è quello relativo alle questioni economiche e commerciali con il varo di contratti per 4 miliardi di dollari nei settori del petrolio e del gas, dell’acciaio, dell’immobiliare e di quello navale. Le cifre e le caratteristiche dei rapporti hanno già un valore epocale. Ma ora c’è un ben preciso passo in avanti perché nel quadro delle relazioni entra, più forte che mai, il “Fattore Siberia”. Si apre, infatti, una pagina di grande rilevanza geopolitica e geoeconomica che va a collocarsi nel quadro di un’iniziativa che è stata lanciata dal Cremlino e che viene ormai comunemente definita come “Il secolo della Cina in Russia”.
Siamo di fronte ad una decisione di carattere strategico che non va minimamente confinata nel quadro delle tradizionali iniziative di carattere propagandistico, turistico o promozionale. Questa volta è in ballo il futuro con i due paesi che ritagliano aree di gestione del potere. E al centro di tutto si trova quel continente poco esplorato che si chiama Siberia. Ed è su questa regione che Putin vuole giocare il futuro del continente eurasiatico chiamando i cinesi ad una collaborazione strategica tale da mettere gli americani in condizioni di dialogare alla pari quanto ad economia e sviluppo.
SIBERIA. I russi sanno che la loro Siberia, tra gli Urali e la costa del Pacifico, è ricca di risorse naturali ma che è scarsamente popolata a causa del rigore del clima. Ma è qui che il paese possiede abbondanti risorse minerarie: petrolio, carbone, ferro, rame, zinco, piombo, bauxite, manganese e stagno. Non mancano i problemi ecologici perché l'inquinamento, dovuto agli scarichi industriali, minaccia il lago Bajkal. E l'industria pesante e le miniere contribuiscono al crescente inquinamento dei principali fiumi, dell'aria nelle città e del suolo. Incidono inoltre sull'ambiente la forte dipendenza dal carbone negli impianti per la produzione di energia elettrica, le avarie nei reattori nucleari e l'abuso di prodotti agrochimici. La deforestazione e l'erosione del suolo minacciano aree molto vaste. Il che fare con la Siberia è quindi un problema nazionale tenendo anche conto che si registra un bassissimi tasso di natalità e che tutte le incentivazioni in favore di un’immigrazione (che erano tipiche degli anni sovietici) sono state abbandonate e, comunque, non contribuiranno mai a risolvere la complessità dei problemi. Proprio per questo Putin vuol affrontare con Hu Jintao un esame complessivo della regione tenendo conto della disponibilità “politiche” dei due paesi partendo anche dalla considerazione che il bacino della “Cindia” è quello dove le multinazionali attingono risorse umane ed elevata specializzazione tecnologica. Putin sa anche che la vecchia Unione Sovietica aveva creato due Russie: una moderna, dinamica ed europea; l’altra bisognosa di essere civilizzata. E di conseguenza Mosca aveva sempre inteso il proprio territorio in Asia come una regione da sfruttare piuttosto che come una porta sul Pacifico; la crescita economica del bacino del Pacifico ha però bypassato l’Unione Sovietica. E le conseguenze sono oggi più che mai visibili.
EURASIA/CINDIA. Gli analisti della Cina e della Russia sanno bene che sia in quella realtà che è definita Eurasia (Europa più Asia) che in quella che oggi si chiama Cindia (Cina più India) si stanno formando nuove ideologie: nazionalismo – economico e politico – il razzismo, la religione e il fanatismo. Ci sono molte premesse politiche perché queste nuove ideologie prendano vigore. Esistono, infatti, gravi problemi economici: le previsioni a medio e lungo termine indicano che la lotta per il possesso di risorse sempre più limitate andrà gradualmente aumentando; un’emigrazione su larga scala che porta a contatto tra di loro popoli dalle più disparate culture, civiltà e scenari socio-economici, e che avviene a una velocità e con dimensioni tali da impedire un processo di assimilazione graduale. Ecco perché al tavolo di questa tornata di trattative russo-cinesi si scoprirà sempre più che i rapporti tra Mosca e Pechino sono stati spesso concepiti all’interno di una secca dicotomia: alleanza o conflitto, rottura o riconciliazione. Oggi, al contrario, sembrano affiorare elementi contrastanti, che evidenziano ora gli aspetti di cooperazione ora quelli della competizione. E in proposito va qui ricordato che fu Gorbaciov che in un famoso discorso pronunciato a Vladivostok diede un giudizio apertamente positivo (che la dirigenza sovietica non dava allora da più di vent’anni) sulla politica economica cinese, arrivando alla conclusione che fra i due paesi comunisti esistevano priorità simili e proponendo su questa base un ulteriore sviluppo della cooperazione.
E’ chiaro, ora, che a Mosca e a Pechino, che stanno vivendo fasi di transizione epocali, vanno messe nel conto alcune modalità relative al processo di transizione dal piano al mercato: la capacità di introdurre elementi di regolazione necessari per far funzionare il mercato, offrendo certezze e garanzie alla proprietà immobiliare, a produttori, a consumatori e a investitori; il grado di apertura agli investimenti diretti esteri e la liberalizzazione del commercio con l’estero, specie se accompagnata dall’introduzione di norme adeguate; il grado di stabilità politica e di stabilità istituzionale.
IL “DOPO” A PECHINO E A MOSCA. I due paesi sono obbligatoriamente costretti a fare i conti con il “dopo”. La Cina per il fatto che a partire dal 1976 (la morte di Mao) ha avviato un processo definito di “demaoizzazione”, in qualche modo simile a quello che avvenne in Unione Sovietica dopo il 1956. Protagonista di questa fase politica fu un anziano membro del gruppo dirigente comunista, Deng Xiao Ping, che, per le sue posizioni moderate, era stato messo in disparte negli anni della “rivoluzione culturale” e che subentrò a Hua Kuo Feng.
Le più importanti riforme furono attuate nel campo economico: venne, infatti, avviata una progressiva decollettivizzazione delle fabbriche e si concessero aperture all'economia di mercato. In primo luogo furono introdotte differenziazioni salariali e incentivi per i lavoratori. In secondo luogo fu data maggiore importanza ai criteri di efficienza e si incoraggiò l'importazione della tecnologia occidentale. Anche nel campo dell'agricoltura furono fatti sostanziali passi avanti in questo senso: si permise ai contadini di coltivare in proprio i piccoli poderi e di vendere i prodotti agricoli sul mercato libero. Tutta questa serie di provvedimenti incoraggiò l'economia cinese, che si consolidò nel corso degli anni ‘80 senza gli squilibri settoriali caratterizzanti l'economia sovietica. La graduale apertura all'economia di mercato fu vista con favore dai paesi occidentali, che valutarono positivamente l'apertura alle importazioni di un mercato potenzialmente illimitato come quello cinese.
Alla liberalizzazione nel campo economico, non corrispose, però, un processo di democratizzazione della sfera politica. Il regime rimase chiuso a qualunque influsso esterno e l'arroccamento del Partito comunista si fece sempre più forte. La struttura burocratica non subì alcuna trasformazione, anzi tese a trasformarsi in una casta, ed ogni manifestazione di dissenso era perseguita e punita severamente.
In politica estera fu attuata la piena normalizzazione dei rapporti con gli USA ed i paesi occidentali (anche se si mantenne alta la tensione con Taiwan, alleata degli USA); si perseguì una forte ostilità nei confronti dell'Urss, e soprattutto, si attuò l'intervento militare punitivo contro il Vietnam, reo di aver esteso la sua egemonia diretta sul Laos e di aver invaso la Cambogia (febbraio 1979); il sanguinario regime cambogiano di Pol Pot era, infatti, alleato con la Cina. La Cina inflisse gravi perdite ai vietnamiti, ma non li indusse a ritirarsi dalla Cambogia. Dopo decenni in cui il mondo (e l'Indocina in particolare) aveva visto movimenti di guerriglia comunisti combattere contro occupanti stranieri o governi filoccidentali, lo scontro tra Cina e Vietnam apparve come un rovesciamento della situazione, con una guerra combattuta tra due stati comunisti.
La Russia, dal canto suo, vive ancora il suo “dopo”. Uscita dall’esperienza sovietica e avviata la costruzione del capitalismo non ha ancora trovato la sua linea di sviluppo. Si trova in parte ad essere dominata dal capitalismo mondiale e in parte dalle oligarchie mafiose che prosperano all’ombra di un Cremlino che attende l’ora “X” delle nuove presidenziali.
L’ANNO RUSSO DELLA CINA. A Mosca gli analisti più attenti hanno scelto lo slogan di questa fase di relazioni politiche internazionali: “Con l’America di Bush e con l’Unione Europea dobbiamo collaborare, con la Cina dobbiamo vivere”. Una definizione che ben rispecchia le linee della diplomazia del Cremlino e che mostra ancora una volta il pragmatismo di una scuola russa rodata negli anni. E sempre in questo contesto i russi puntano a siglare con Hu Jintao una dichiarazione di collaborazione “strategica” per dieci a anni. Sanno bene, infatti, che in questo arco di tempo molte relazioni con l’America e con l’Europa saranno suscettibili di grosse variazioni. E c’è dell’altro. Secondo le previsioni più realistiche dei demografi i cinesi, nel 2030, andranno ad occupare il secondo o il terzo posto nella graduatoria delle nazionalità presenti in Russia. E si sa bene che la diaspora cinese si concentrerà soprattutto nelle zone Siberiane e precisamente in quelle aree che confinano con la stessa Cina.
A Mosca, di conseguenza, vengono alla luce alcune domande di principio. Quale deve essere l’atteggiamento “russo” nei confronti di tali problemi? Accettare la presenza cinese, ma nello stesso tempo prevedere una sorta di guerra calda tra russi e cinesi per le loro presenze massicce nelle zone dell’Amur e di Chabarovsk? Queste “presenze” andranno considerate come fattori di integrazione? Il problema che si pone già oggi, quindi, è quello di cominciare a studiare i meccanismi di integrazione senza che si registrino sconvolgimenti sociali.
Ed è appunto sullo scenario di una geopolitica del futuro che vanno a collocarsi le questioni dell’oggi. Tenendo conto che Pechino e Mosca hanno come obiettivo (pur se debitamente celato) quello di far diminuire il ruolo strategico degli Usa.
I CONTRATTI DEL SECOLO. Geopolitica a parte i cinesi – forti del loro pragmatismo – puntano a raccogliere il più possibile in questa fase di buon vicinato con i russi. E così al tema della Siberia (facilitazioni per i visti frontalieri, accordi per contratti di lavoro a tempo determinato…) seguirà quello della cooperazione energetica. Li Hui, funzionario del ministero cinese degli Esteri, ha detto che è prevista la firma di contratti per un valore di 2 miliardi di dollari; tra gli accordi, l’aumento dell’importazione di greggio russo tramite ferrovia. Nel 2006 il commercio tra i due Paesi è stato di 33,4 miliardi di dollari (+14,7%), ma è appena il 2% del commercio cinese, che ha rapporti molto maggiori con gli Stati Uniti. Mosca – che ha le maggiori riserve mondiali di gas naturale ed è il 2° esportatore di petrolio - vende soprattutto in Europa. Ma petrolio e gas russo sono essenziali per Pechino, mentre Putin a sua volta guarda con crescente interesse ad Oriente. Qui è in atto la costruzione di un oleodotto che per il 2015 porterà 1,6 milioni di barili di greggio dalla Siberia orientale fino al porto russo di Nakhodka sull’Oceano Pacifico, davanti al Giappone e vicino alla Corea. Pechino da tempo insiste perché l’oleodotto arrivi in Cina, ma finora senza esito. La Russia esporta circa 5 milioni di barili di greggio al giorno, ma solo 320 mila vanno in Cina, per ferrovia.
La Cina riceve molto più petrolio da Arabia Saudita, Angola e Iran, nonostante abbia 4.200 chilometri di confine con Mosca. I due Paesi, divenuti rivali e che nel 1969 hanno anche avuto scontri armati di confine, solo da qualche anno hanno ripreso crescenti rapporti economici e solo nel 2004 hanno concluso un trattato per risolvere la disputa sui confini.
Oltre al commercio, i due Paesi vogliono aumentare la collaborazione politica, anche per diminuire l’influenza degli Stati Uniti. Nella crisi nucleare iraniana finora hanno usato la minaccia del diritto di veto per limitare l’imposizione di sanzioni a Teheran da parte della Nazioni Unite. Entrambi i Paesi sono membri dello Shanghai Cooperation Organization, istituzione di importanza crescente che raccoglie gli Stati caucasici dell’Asia centrale, ma cui partecipano anche India, Iran e Pakistan.
La Russia è anche il primo fornitore di armi alla Cina. Nel 2006 i due Stati per la prima volta hanno compiuto operazioni militari congiunte che si ripeteranno quest’anno.
C’è, infine, una sorta di “pericolo giallo” del quale però i russi non vogliono parlare. Temono una reazione. Ma si sa che decine di migliaia di imprenditori e commercianti cinesi emigrano e lavorano in Russia, specie nella vasta regione siberiana. Ed anche se hanno fatto crescere l’economia locale, Mosca non vuole che giungano a controllarla. Il processo di integrazione, comunque, continua. E l’anno della Cina in Russia contribuirà a risolvere molti problemi. La via dell’integrazione, è ovvio, non si ferma con una muraglia sia di costruzione cinese che russa.
UNA SIBERIA COMUNE PER MOSCA E PECHINO
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