Il partito Laburista della Nuova Zelanda ha eletto nel fine settimana il successore della leader dimissionaria e primo ministro uscente Jacinda Ardern, da qualche anno vera e propria icona della finta sinistra “liberal” globale. Il suo addio alla politica attiva era stato annunciato a sorpresa la scorsa settimana, gettando nel panico i sostenitori sia in patria sia in Occidente. Le ragioni delle dimissioni sono ufficialmente legate alle troppe minacce ricevute, ai livelli insopportabili di stress che la posizione di capo del governo implica e al desiderio di trascorrere più tempo in famiglia. C’è da credere tuttavia che i veri motivi abbiano in qualche modo a che fare con il rapido dissolversi della favola del paradiso neozelandese benevolmente governato dalla Ardern, sotto la spinta della crisi economica planetaria e del conflitto tra Stati Uniti e Cina, i cui riflessi incidono in maniera inevitabile sulla vicende interne del paese dell’Oceania.

 

La Ardern lascerà ufficialmente l’incarico di premier il prossimo 7 febbraio e il suo seggio in parlamento nel mese di aprile. Senza un ovvio successore alla vigilia, il Partito Laburista ha eletto l’attuale ministro dell’Istruzione, della Polizia e della Funzione Pubblica, Chris Hipkins, già ministro della Salute e responsabile della risposta al COVID-19 fino al giugno scorso. Il terremoto in casa laburista solleva una grave incognita sulle prospettive del partito in vista delle elezioni del prossimo ottobre. Con il livello di gradimento tra gli elettori in discesa e senza la sua carismatica leader, il “Labour” rischia di essere clamorosamente rispedito all’opposizione dopo la nettissima vittoria alle urne del 2020.

Mentre l’annuncio della Ardern ha colto di sorpresa i membri stessi del partito, sembra che Hipkins fosse stato informato delle sue intenzioni più di un mese fa. È quindi probabile che quest’ultimo sia stato indicato come nuovo leader dalla stessa premier uscente. La flessione dei laburisti nelle intenzioni di voto dei neozelandesi è coincisa con il manifestarsi dei primi affanni dell’economia ormai quasi un anno fa in parallelo all’esplodere della crisi russo-ucraina. L’impennata dell’inflazione ha colpito relativamente duro le classe più deboli, manifestandosi in primo luogo con il peggioramento di una crisi abitativa già tra le più gravi dei paesi OCSE.

In oltre cinque anni di governo, Jacinda Ardern ha goduto di una copertura mediatica estremamente favorevole, soprattutto perché la sua immagine di madre e donna di potere con inclinazioni “progressiste” ha permesso alle classi dirigenti occidentali di presentare all’opinione pubblica un esempio di leadership funzionante all’interno dell’altrimenti screditato sistema liberal-democratico. Questa tattica ha funzionato in parte soprattutto nei primi anni di governo della Ardern, per poi sfaldarsi a poco a poco e lasciare spesso spazio, al di fuori degli ambienti della classe media fissata con le questioni di genere, a un certo senso di repulsione per l’ossessiva promozione della sua immagine sui media ufficiali.

Di particolare interesse sono comunque i riflessi delle dimissioni della Ardern sulla politica estera neozelandese e sulle dinamiche geo-strategiche in Estremo Oriente. Non essendoci chiarezza sulle ragioni del suo addio al governo e alla politica in generale e visti i precedenti storici che riguardano i capi di governo dei due principali paesi dell’Oceania (Australia e Nuova Zelanda), non è da escludere che la decisione del primo ministro uscente sia stata almeno in parte influenzata dalle pressioni provenienti da Washington.

La questione è da ricondurre alle manovre americane in atto per riallineare i propri partner in Asia orientale e in Oceania in preparazione della nuova escalation dello scontro con la Cina. La crescente aggressività degli Stati Uniti in questo ambito richiede sempre più un’attitudine meno ambigua da parte degli alleati storici, tanto più se questi paesi, come la Nuova Zelanda, fanno parte del cerchio ristretto dei cosiddetti “Five-Eyes”, la rete integrata di intelligence che include anche USA, Canada, Gran Bretagna e Australia.

Le possibili pressioni americane in questo senso sono dovute all’atteggiamento decisamente più cauto tenuto verso la Cina da parte del governo di Jacinda Ardern rispetto agli alleati. Il motivo di ciò sono in primo luogo i solidissimi rapporti commerciali bilaterali, che producono un attivo molto consistente per l’economia neozelandese. L’accesso al mercato cinese, consolidato nel 2022 dall’aggiornamento del trattato di libero scambio sottoscritto nel 2008, ha in definitiva limitato l’adesione di Wellington ai piani degli Stati Uniti, anche se la Ardern ha sposato in pieno la campagna anti-russa promossa da Washington.

Il tentativo di mantenere una posizione equidistante tra l’alleato storico in materia di “sicurezza” e il proprio principale partner commerciale aveva talvolta generato qualche rimprovero nei confronti della premier neozelandese. Soprattutto, la sua uscita di scena ha subito scatenato sulla stampa filo-americana una serie di commenti molto critici nei confronti della prudenza mostrata verso Pechino. È evidente che nella fase di transizione che sta per iniziare in Nuova Zelanda si verificheranno interferenze a vario livello per ottenere un impegno più chiaro in funzione anti-cinese da parte della leadership entrante.

Queste dinamiche non sono parte di tesi cospirazioniste, ma sono ancorate saldamente all’esempio dei molti precedenti che hanno visto l’intervento più o meno scoperto degli Stati Uniti per indirizzare nel senso preferito la politica interna di un determinato paese. In Oceania, ciò è vero soprattutto per l’Australia, ma anche la Nuova Zelanda non è stata immune dalle manovre di Washington. Proprio il predecessore di Jacinda Ardern, l’allora primo ministro conservatore John Key, nel 2016 si dimise a sua volta nel pieno di una campagna mediatica diretta contro l’impegno del suo governo a rafforzare i legami economici e commerciali con la Cina.

Addirittura, dopo le elezioni del 2017, che si risolsero senza un chiaro vincitore, l’ambasciatore americano a Wellington era intervenuto pubblicamente esprimendo la preferenza dell’amministrazione Trump per un governo di coalizione formato dai Laburisti, dai Verdi e dal partito populista di destra “NZ First”, precisamente perché ritenuto maggiormente influenzabile nelle scelte anti-cinesi di politica estera sollecitate dagli Stati Uniti.

Nelle prossime settimane e fino al voto di ottobre, sarà da tutto da valutare l’impatto del nuovo primo ministro Hipkins sulle decisioni di politica estera della Nuova Zelanda. Sia Washington sia Pechino cercheranno prevedibilmente di manovrare a proprio favore. Per il momento, il neo-leader dei laburisti ha lasciato intendere che non ci saranno cambiamenti drastici. Nella conferenza stampa seguita alla sua elezione, Hipkins ha ribadito che “i nostri rapporti economici con la Cina sono incredibilmente importanti”, per poi assicurare che la visita a Pechino, che avrebbe dovuto vedere protagonista la Ardern, “rimane ai primi posti nella lista delle priorità” del primo ministro in pectore.

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