Le dimissioni del ministro della Difesa tedesco hanno portato alla luce spaccature e contraddizioni che attraversano la prima potenza economica dell’Europa e il governo federale del cancelliere Olaf Scholz nel quadro del conflitto in Ucraina. L’uscita di scena questa settimana di Christine Lambrecht, sostituita martedì con il semisconosciuto Boris Pistorius, è infatti da collegare ai presunti tentennamenti evidenziati nell’approvare l’invio di armi sempre più sofisticate al regime di Zelensky. Più in generale, la sorte dell’ormai ex ministro è stata segnata dalla lentezza con cui, sotto la sua supervisione, è stato portato avanti il piano di “modernizzazione” delle forze armate tedesche, ovvero l’impulso al militarismo più consistente dai tempi del regime nazista.

 

A livello formale, la Lambrecht avrebbe visto indebolirsi la sua posizione a causa dell’accumularsi di svariate controversie esplose fin dalla sua nomina. Media e politici di opposizione avevano iniziato a prenderla di mira già a inizio dello scorso anno, quando aveva annunciato l’invio di 5.000 elmetti all’Ucraina presentando l’iniziativa come un “chiaro segnale” della volontà tedesca di essere al fianco di Kiev nel confronto con Mosca.

Qualche mese più tardi era inoltre scoppiata una polemica per un volo a bordo di un elicottero militare sul quale il ministro si era fatta accompagnare dal figlio 21enne. La notizia era circolata proprio grazie a un post pubblicato dalla stessa Lambrecht sul suo account Instagram. Un altro recente intervento su questo “social” ha alla fine dato l’occasione ai suoi detrattori di assestare il colpo definitivo che l’ha costretta alle dimissioni. In un imbarazzante video girato nelle strade di Berlino tra i festeggiamenti per il Capodanno, il ministro socialdemocratico aveva tenuto a spiegare come la guerra che “infuria in Europa” le avesse procurato “sensazioni speciali” e consentito di incontrare “molte persone importanti e interessanti”.

Nell’immediato, l’avvicendamento alla guida del ministero della Difesa si è reso necessario per provare a mostrare un cambio di passo in concomitanza con il vertice di questa settimana degli sponsor dell’Ucraina nella base di Ramstein, a cui parteciperà anche il numero uno del Pentagono, Lloyd Austin, e nel quale verrà fatto il punto sulle nuove forniture di armi da inviare al regime di Kiev.

A questo proposito, la Germania è sotto pressione per dare l’OK all’invio di carri armati da combattimento Leopard 2. Il governo Scholz ha finora esitato a prendere una decisione in questo senso, ma un numero crescente di paesi europei sta spingendo su Berlino per sbloccare la situazione. Finlandia e Polonia sarebbero ad esempio pronte a consegnare un certo numero di Leopard 2 all’Ucraina, ma, essendo i carri armati di fabbricazione tedesca, gli accordi di vendita prevedono che l’invio a terzi venga autorizzato appunto dalla Germania.

Secondo alcuni commentatori, il successore di Christine Lambrecht dovrà ricevere una qualche benedizione da Washington ed essere pronto a concedere quanto richiesto al regime ucraino. Fino a lunedì, la favorita per la carica di ministro della Difesa sembrava essere il “falco” della SPD, Eva Högl, tra i politici più attivi nel promuovere la causa ucraina, nonché i massicci investimenti sul fronte militare domestico.

La scelta di Pistorius, anch’egli socialdemocratico e attuale responsabile del dipartimento degli Interni del governo regionale della Bassa Sassonia, sarà invece tutta da valutare. Scholz potrebbe avere optato per una figura di basso profilo a livello nazionale per controllare personalmente il portafoglio della Difesa, anche se la stampa tedesca sembra attribuire a Pistorius quelle caratteristiche di risolutezza e determinazione teoricamente necessarie per implementare l’accelerazione richiesta da più parti.

Va detto in ogni caso che la prudenza attribuita alla Lambrecht, nonché allo stesso Scholz, deve essere valutata nell’ottica dell’isteria anti-russa che pervade la grandissima parte della classe politica europea. Se nel governo di Berlino ci sono resistenze a provocare un’ulteriore escalation del conflitto consegnando armi più potenti all’Ucraina, è anche vero che la Germania ha finora sbloccato parecchio materiale non esattamente inoffensivo, come ad esempio, solo per citare i casi più recenti, 40 mezzi da combattimento Marder e una batteria di missili anti-aerei Patriot da installare in territorio polacco.

La questione dei Leopard 2, così come di tutti gli altri sistemi bellici invocati fin qui come elementi decisivi per far svoltare la guerra in favore di Kiev, nasconde una realtà ben diversa da quella promossa dalla propaganda ufficiale. La Germania dispone di circa 110 di questi mezzi che potrebbero essere trasferiti all’Ucraina, ma come ha ammesso l’amministratore delegato della società costruttrice (Rheinmetall), per renderli pronti all’impiego nel teatro di guerra servirebbe almeno un anno, oltre che centinaia di milioni di euro.

È del tutto evidente che le pressioni su Berlino servono quindi anche a spingere il governo Scholz oltre la linea rossa tracciata dal Cremlino, così da rendere irreversibile la rottura con Mosca. Quest’ultimo è un obiettivo primario degli Stati Uniti ed è alla base delle provocazioni che hanno portato alla guerra in Ucraina. La Germania, dopo l’inizio dell’invasione russa del febbraio scorso, ha assecondato di fatto le posizioni americane, arrivando ad accettare situazioni ben oltre il limite dell’autolesionismo, come la potenziale deindustrializzazione del proprio sistema economico e la distruzione del gasdotto Nord Stream 2.

Sia pure in modo relativo e a fasi alterne, il governo federale ha tenuto tuttavia posizioni meno estreme sull’Ucraina rispetto ad altri paesi, ad esempio quelli baltici o la Polonia. Dentro la SPD rimane infatti una fazione più prudente che vede con enorme preoccupazione la liquidazione delle basi stesse della potenza economica tedesca, vale a dire la disponibilità di risorse energetiche a basso costo e l’apertura verso i mercati euroasiatici. Per altro verso, il secondo dei tre partiti di governo a Berlino, cioè i Verdi, continua a rappresentare l’anima più irriducibilmente atlantista e guerrafondaia, dettando in buona parte la linea della politica estera tedesca.

La crisi ucraina costituisce in ogni caso un’occasione storica per la classe dirigente tedesca, da oltre un decennio ormai in piena mobilitazione per fare della Germania una grande potenza globale, in primo luogo attraverso il rafforzamento dell’esercito. Non a caso in concomitanza con le dimissioni del ministro della Difesa Lambrecht, la rivista Der Spiegel ha pubblicato un lungo articolo che denuncia esplicitamente la presunta passività del governo Scholz nel gestire il processo di militarizzazione della Germania e, assieme, offre una sorta di elenco dei desiderata dei vertici delle forze armate e degli ambienti più guerrafondai del paese.

Uno dei temi più caldi è l’insufficienza del fondo speciale da 100 miliardi di euro che il governo ha promesso per la “modernizzazione” dell’esercito tedesco. La già incredibile somma dovrebbe essere triplicata, secondo Der Spiegel, e in parallelo la quota del PIL da destinare annualmente alle spese militari salire dall’obiettivo programmato del 2% addirittura al 3%, cioè dagli attuali 50 miliardi a 120 miliardi. La reintroduzione della leva obbligatoria è un altro elemento giudicato utile alla militarizzazione della società e al superamento delle resistenze della grande maggioranza della popolazione alla partecipazione a future guerre da parte della Germania.

Un aspetto fondamentale è poi il rafforzamento dell’industria bellica tedesca e la semplificazione delle procedure di appalto in ambito militare. Particolarmente delicata è infine la questione del controllo civile sulle forze armate. Der Spiegel lamenta la scarsa influenza dei generali sulle decisioni del ministero della Difesa e invoca un’inversione di rotta rispetto alla linea tracciata un decennio fa dall’allora ministro cristiano-democratico, Thomas de Maizière. Il ministro del gabinetto Merkel aveva in sostanza escluso i comandanti dei vari corpi delle forze armate dal suo dicastero e il rifiuto della Lambrecht a revocare questa norma, così come le resistenze ad adottare una “riforma” più ampia che includa anche l’aumento consistente dei militari in servizio, è stato appunto uno dei fattori che, nei giorni scorsi, le è costato definitivamente l’incarico.

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