I recenti attacchi aerei in territorio russo costituiscono una nuova pericolosa escalation del conflitto ucraino, quasi certamente avvenuti con l’approvazione e il sostegno dell’amministrazione Biden nonostante le smentite ufficiali. Finora sono state almeno tre le incursioni condotte verosimilmente con droni ucraini contro altrettante basi aeree russe. In un’occasione, sarebbero rimasti uccisi tre militari di Mosca, mentre nelle altre due non sembrano invece esserci state vittime. Le operazioni più rilevanti hanno interessato la base di Engels, nella regione di Saratov, a oltre 500 km dal confine con l’Ucraina, e un’altra in quella di Ryazan, a meno di 200 km a sud-est di Mosca.

 

L’attacco a Engels è avvenuto nella mattinata di lunedì e ha causato guasti minori ad alcuni velivoli militari russi in grado di trasportare testate nucleari. I danni provocati in tutti e tre i casi sarebbero dovuti alla caduta di frammenti dei droni intercettati e distrutti dai sistemi difensivi russi. Le operazioni militari di Mosca in territorio ucraino sono comunque proseguite regolarmente, mentre il terzo blitz, registrato martedì nella città di Kursk, si è concluso con il massiccio incendio di un deposito di petrolio.

Secondo alcune ricostruzioni, i droni utilizzati da Kiev sarebbero velivoli di progettazione sovietica appositamente modificati e non farebbero parte degli armamenti forniti al regime ucraino dall’Occidente. Altri osservatori ritengono al contrario che questi mezzi siano stati consegnati da un qualche governo della “coalizione” che sostiene l’Ucraina. Un ulteriore fattore ugualmente importante e non ancora del tutto chiaro è la probabile assistenza esterna nella raccolta di dati di intelligence per portare a termine le operazioni.

La posizione americana sui fatti di questi ultimi giorni è stata apparentemente netta. Il dipartimento di Stato ha assicurato che Washington “non facilita né incoraggia” attacchi oltre i confini ucraini, non avendo trasferito a Kiev armi in grado di raggiungere il territorio russo. Le garanzie espresse anche in precedenza sulla contrarietà degli USA a colpire la Russia entro i propri confini avevano fatto della questione un argomento scottante, ben sapendo del rischio di escalation della guerra che comporta. Lunedì, il Wall Street Journal aveva anche rivelato che il Pentagono si era assicurato di modificare segretamente i sistemi di lancio missilistico HIMARS forniti all’Ucraina, in modo da limitare il loro raggio d’azione a poco più di 80 km, così da evitare attacchi dentro i confini russi.

Queste circostanze sollevano il dubbio sulla possibile decisione da parte di Kiev di procedere in autonomia con gli attacchi contro le basi aeree russe. A livello teorico, Zelensky prende ordini direttamente da Washington, ma già il recente missile finito su una fattoria in Polonia era apparso un’iniziativa del regime ucraino per trascinare ancora di più la NATO nel conflitto. Esiste inoltre l’ipotesi di settori militari e dell’intelligence degli Stati Uniti che condividono questi ultimi obiettivi, al di là della posizione ufficiale della Casa Bianca, e possono avere agito a supporto delle operazioni condotte tra lunedì e martedì.

In tutti modi, gli ultimi attacchi in Russia rispondono alla stessa logica delle precedenti provocazioni ucraine, come ad esempio l’assassinio a Mosca della giornalista Darya Dugina o l’attentato contro il ponte di Crimea, con uno schema che, a livello generale, non può escludere la partecipazione americana o, comunque, della NATO. Ogni iniziativa, incluse appunto le missioni di questa settimana con i droni ucraini, sembra spostare i paletti un poco più avanti, quasi a testare la reazione russa o a provocare una risposta del Cremlino che giustifichi un maggiore coinvolgimento occidentale nel conflitto.

Non è da escludere infine che gli attacchi ucraini puntino a fare pressioni psicologiche sulla leadership russa, alimentando i timori di possibili incursioni anche su Mosca. Non ci sono ad ogni modo elementi finora che indichino un ribaltamento degli equilibri del conflitto, né che le capacità mostrate in questi giorni dall’Ucraina corrispondano a un’effettiva possibilità di sostenere uno sforzo costante in questo senso. Nella guerra in corso, oltretutto, la Russia ha spesso evidenziato una certa abilità ad adattarsi alle condizioni dello scontro, visto il crescente livello di partecipazione ad esso dei paesi NATO.

Europa: ora della sveglia?

Tra gli argomenti più discussi in questi giorni sui media in merito alla crisi russo-ucraina c’è anche il principio di rottura del fronte transatlantico sulla spinta delle contraddizioni di una guerra decisa in primo luogo dagli Stati Uniti. Il presidente francese Macron è stato ancora una volta il più esplicito nell’esprimere il disagio crescente dell’Europa per una situazione che sta letteralmente precipitando nel vecchio continente.

La sua recente visita a Washington è stata in qualche modo il catalizzatore dei malumori europei e, dietro la facciata dell’unità e degli obiettivi comuni in Ucraina, l’inquilino dell’Eliseo ha piazzato alcune dichiarazioni che hanno lasciato pochi dubbi sullo stato e sulle prospettive dei rapporti bilaterali. In particolare, nel corso di un’intervista alla TV francese, Macron ha ricordato in modo piuttosto chiaro i vantaggi che gli USA stanno incassando dal conflitto a spese degli alleati europei. La questione più delicata resta quella del gas, con l’Europa che, dopo l’harakiri dello stop alle importazioni russe tramite gasdotti, si ritrova ad acquistare quello liquefatto americano, così come quello russo, a prezzi molto più alti.

Diatriba più recente è invece quella legata ai sussidi all’industria “verde” americana inseriti nel pacchetto anti-inflazione (IRA) voluto dall’amministrazione Biden. Per i vertici UE si tratta di una colossale violazione dei principi del libero mercato che mette in netto svantaggio l’economia europea. La disputa ha senza dubbio occupato buona parte del vertice tra Macron e Biden, mentre da questa parte dell’Atlantico anche la presidente della Commissione europea, Ursula Von der Leyen, prospettava iniziative di natura essenzialmente protezionistica per correre ai ripari.

Aspettarsi un passo indietro dal precipizio verso cui Bruxelles ha condotto l’Europa su ordine di Washington è decisamente troppo per il momento. Quello che si può prevedere è invece un aggravamento delle tensioni tra le due sponde dell’Atlantico e, in parallelo, all’interno dell’Unione. Su altri temi legati sempre al conflitto russo-ucraino stanno emergendo infatti sempre più le diverse posizioni dei paesi membri: dalla quota a cui fissare il tetto al prezzo del petrolio russo all’ultimo pacchetto di aiuti all’Ucraina, bloccato nei giorni scorsi dal governo ungherese, fino alla recentissima apertura sempre di Macron alle richieste di Mosca per mettere fine alla guerra in corso.

Il presidente francese, subito dopo il rientro dalla trasferta americana, aveva avvertito della necessità di offrire alla Russia garanzie di sicurezza nel quadro dei rapporti in Europa una volta finito il conflitto. Le parole di Macron hanno ricordato le richieste sottoposte appunto da Mosca agli Stati Uniti e alla NATO alla fine del 2021 per resettare i rapporti ed evitare la guerra. Com’è noto, Washington respinse l’ipotesi di ritirare le armi offensive della NATO dai paesi confinanti con la Russia, così come quella di negare di principio l’ingresso dell’Ucraina nell’Alleanza, spianando la strada a un’escalation del conflitto.

Dopo quasi un anno di guerra, con una gravissima crisi economica ed energetica che sta colpendo l’Europa e il rischio di uno scontro diretto tra NATO e Russia, più di un governo europeo sta prendendo coscienza del disastro in cui Washington ha trascinato il continente per soddisfare i propri obiettivi strategici. Per invertire la rotta servirebbe una classe dirigente capace di prendere le distanze dagli Stati Uniti e pronta a impegnarsi per gli interessi delle popolazioni europee. Salvo forse qualche rarissima eccezione, nessuno dei due requisiti sembra però caratterizzare i burocrati non eletti di Bruxelles e le cancellerie dei paesi europei.

Fantasmi e vittime civili

Nella quantità enorme di “informazioni” che i media ufficiali in Occidente veicolano sulla crisi ucraina, restano quasi sempre esclusi i fatti più scomodi relativi al comportamento del regime di Zelensky, ovvero quelli che, se diffusi su vasta scala, finirebbero per contraddire la versione ufficiale dei fatti e l’immagine fantasiosa di un paese che si batte per libertà e democrazia. Oltre alla feroce repressione nei confronti di chiunque sia in odore di collaborazionismo, alla messa al bando di qualsiasi partito o movimento di opposizione, al proliferare di gruppi neonazisti, alle leggi che cancellano i diritti dei lavoratori, alla svendita del paese al capitalismo finanziario e agrario occidentale, vige il silenzio quasi assoluto anche sul costante bombardamento di obiettivi civili nel quadro del conflitto che si sta consumando.

La città di Donetsk resta l’obiettivo preferito dalle forze armate ucraine e puntualmente i bersagli sono edifici civili che non hanno alcun valore dal punto di vista militare. Solo a inizio di questa settimana le bombe cadute sulla capitale dell’omonimo “oblast”, entrato a far parte della Federazione Russa, hanno fatto almeno una decina di vittime tra la popolazione civile. L’artiglieria ucraina ha colpito deliberatamente, tra gli altri, un centro commerciale, un mercato, una struttura dove si tengono eventi sportivi, una stazione degli autobus, una chiesa e alcuni edifici residenziali.

Sono praticamente quotidiani i bombardamenti di questo genere a Donestsk e altrove nel Donbass e seguono uno schema consolidato ormai da oltre otto anni. Per l’Occidente gli abitanti filo-russi di queste regione semplicemente non esistono e, anzi, le vittime civili sono ormai quasi sempre il risultato di bombardamenti operati per mezzo di armi fornite da Stati Uniti ed Europa.

Le priorità di Washington sono tuttavia altre. Ad esempio, la garanzia del flusso ininterrotto di finanziamenti ed equipaggiamenti militari al regime di Kiev. Questa settimana, il Congresso americano ha infatti trovato un’intesa sulla versione definitiva del nuovo bilancio del Pentagono per il prossimo anno. L’importo stanziato raggiungerà l’incredibile cifra di 858 miliardi di dollari, con un consistente aumento rispetto al “budget” precedente anche per via dell’inserimento di una nuova tranche di fondi pari a 800 milioni di dollari da destinare alla cricca di Zelensky, rigorosamente senza nessuna forma di controllo o supervisione.

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