La richiesta da parte del ministero della Giustizia di Mosca di sospendere le operazioni dell’Agenzia Ebraica in Russia ha aperto una crepa nelle relazioni tra questo paese e Israele che potrebbe avere ripercussioni importanti sia sugli equilibri strategici del Medio Oriente sia sull’andamento del conflitto in Ucraina. Questo organo ha uffici in molti paesi e svolge un compito cruciale per lo stato ebraico, occupandosi in primo luogo della promozione del trasferimento in Israele degli ebrei residenti in ogni angolo del pianeta attraverso un processo noto col nome di “Aliyah”.

 

L’Agenzia opera a stretto contatto con il governo israeliano, anche se da quest’ultimo non riceve fondi. I finanziamenti arrivano in larga misura da organizzazioni americane o sempre di Israele e proprio il fatto di essere dipendente da soggetti esteri, in primo luogo americani, ha forse convinto la Russia a muoversi contro di essa dopo anni di stretta sorveglianza. Già il 5 luglio scorso, il giornale israeliano Jerusalem Post aveva rivelato come le autorità di Mosca avessero chiesto a Tel Aviv la fine delle attività dell’Agenzia Ebraica in territorio russo. Le ragioni non erano state divulgate, ma un esponente anonimo del governo di Israele aveva spiegato che da Mosca c’erano state rimostranze per la “raccolta illegale di informazioni su cittadini russi” da parte dell’Agenzia.

La risposta delle autorità israeliane era stata piuttosto cauta, pur lasciando intravedere una certa inquietudine. Una discussione con i colleghi russi sembrava in sostanza poter risolvere la questione, soprattutto grazie al buono stato delle relazioni bilaterali malgrado le tensioni dovute alla guerra in Ucraina. Una settimana più tardi, l’agenzia di stampa RIA Novosti aveva però dato notizia della conclusione di un’indagine del ministero della Giustizia russo sull’Agenzia, in base alla quale era stata predisposta un’iniziativa ufficiale. Alla fine, il 21 luglio un tribunale distrettuale di Mosca ha ricevuto l’istanza del ministero per la cessazione delle attività dell’Agenzia Ebraica in Russia e la sua definitiva liquidazione. Anche in questo caso, le motivazioni della giustizia russa non sono state rese note.

Alcuni commentatori hanno fatto notare come il lavoro dell’Agenzia Ebraica costituisca di per sé un elemento negativo per la Russia. L’emigrazione da questo paese verso Israele prosegue annualmente ad un ritmo sostenuto. Ad oggi, poco meno di un milione di cittadini israeliani sono immigrati dalla Russia e finora nel 2022 si sono contati circa 15.000 trasferimenti verso lo stato ebraico. Mentre per Israele questo movimento di persone rappresenta una risorsa, in primo luogo puramente demografica visto il tasso di natalità nettamente più elevato degli arabi rispetto agli ebrei, per la Russia si tratta al contrario di un problema, poiché sottrae al paese cittadini quasi sempre con un livello di istruzione medio-alto.

Questa dinamica non esaurisce però la questione, soprattutto se si considera il tempismo della decisione della giustizia russa. Se è vero che l’Agenzia Ebraica è da anni sotto osservazione delle autorità russe, l’aggravarsi della situazione per via della guerra in Ucraina deve avere spinto Mosca ad agire, probabilmente perché le attività condotte dietro la copertura della facilitazione delle pratiche migratorie sono diventate una minaccia insostenibile per la Russia.

Tra le analisi di questi giorni dedicate alla vicenda, quella dell’ex diplomatico indiano MK Bhadrakumar per la testata on-line libanese The Cradle è stata tra le più esplicite nel collegare l’Agenzia Ebraica agli ambienti sionisti americani e, da qui, all’intelligence USA. L’Agenzia ha appunto legami profondi con la lobby ebraica negli Stati Uniti, come dimostra la recentissima nomina a presidente del consiglio di amministrazione del cittadino americano, nonché imprenditore miliardario, Mark Wilf, già numero uno della “Jewish Federations of North America”.

Anche se non ci sono elementi che spieghino con certezza le scelte di Mosca, il Cremlino “non può permettersi di ignorare la realtà dei fatti e il collegamento tra l’intelligence americana e quella israeliana”. Esiste la possibilità concreta, perciò, che “uomini dell’Agenzia Ebraica in Russia siano legati clandestinamente ai servizi segreti USA”. A ciò va aggiunto che la stessa Agenzia ha un ufficio a Kiev e i militari israeliani gestiscono un ospedale che si occupa dei soldati ucraini feriti. È decisamente improbabile che il governo di Putin abbia adottato una misura così radicale nei confronti di un’agenzia ritenuta di primaria importanza dallo stato ebraico senza avere ponderato con attenzione le conseguenze.

Appare dunque plausibile che le autorità russe abbiano raccolto elementi tali a carico dell’Agenzia Ebraica da giustificare la clamorosa chiusura dei suoi uffici di Mosca in uno scenario segnato dalla rimozione, dopo l’inizio delle operazioni militari in Ucraina, di tutte le minacce riconducibili all’apparato delle ONG e dei “think tank” occidentali. A conferma di questa tesi c’è la notizia, pubblicata lunedì sempre dal Jerusalem Post, che il governo di Mosca avrebbe comunicato anche a svariate altre organizzazioni ebraiche operanti in Russia l’intenzione di sospendere le loro attività. La decisione, secondo il giornale israeliano, riguarderebbe solo gli enti che ricevono fondi dall’estero.

La vicenda dell’Agenzia Ebraica in Russia si inserisce in un contesto segnato da un lato dalla crisi di governo in Israele, con l’avvicinarsi delle ennesime elezioni anticipate in programma il primo novembre, e dall’altro da profondi cambiamenti nella geografia della sicurezza mediorientale. Nel quadro regionale in trasformazione, il continuo deterioramento delle relazioni con la Russia non promette nulla di buono per Israele, il cui governo ha in sostanza abbracciato la campagna anti-russa promossa dagli Stati Uniti dopo l’esplosione della crisi ucraina a fine febbraio.

Se Tel Aviv gode di impunità e relativa libertà d’azione in Medio Oriente grazie alla “ombrella” della sicurezza americana, la realtà degli ultimi anni ha mostrato come la posizione israeliana sia stata favorita anche dal rapporto privilegiato mantenuto con Mosca, dovuto in parte alla chimica dei rapporti personali tra Putin e l’ex premier Netanyahu. Grazie alla tacita approvazione russa, ad esempio, Israele ha potuto così operare bombardamenti a piacimento in territorio siriano, ufficialmente per colpire obiettivi legati a Iran e Hezbollah.

In un quadro più generale, la penetrazione della Russia in Medio Oriente a partire dall’intervento a fianco del legittimo governo siriano ha consentito a Mosca di ritagliarsi uno spazio di primissimo piano nella regione, grazie soprattutto al mantenimento di rapporti improntati al pragmatismo con tutti gli attori più rilevanti. Questa realtà rende oggi più importante per Tel Aviv il rapporto con Mosca piuttosto che viceversa e le reazioni allarmate del governo israeliano al possibile incrinarsi della partnership con la Russia per via della questione dell’Agenzia Ebraica ne sono una testimonianza inequivocabile.

La questione non è evidentemente sentita in modo univoco in Israele. Tant’è che, come ha scritto lunedì il giornale Israel Hayom, qualcuno a Tel Aviv vorrebbe sfruttare l’occasione per abbandonare anche l’apparenza della neutralità nel conflitto russo-ucraino e fare quanto il governo si è finora astenuto dal fare, cioè abbracciare le sanzioni imposte al governo di Mosca. Al di là degli effetti, che come per l’Europa potrebbero essere più gravi per chi applica le sanzioni rispetto al paese sanzionato, è chiaro che la parabola discendente dei rapporti tra Russia e Israele va ricondotta all’offensiva anti-russa di Washington e alle pressioni esercitate dalla Casa Bianca sui propri alleati per unirsi a questa campagna.

La direzione che la classe dirigente israeliana intenderà prendere a questo proposito è comunque tutta da verificare. L’attuale governo del premier Yair Lapid ha le settimane contate e il probabile ritorno al potere di Netanyahu, come già accennato molto vicino a Putin, potrebbe rimettere in carreggiata la partnership russo-israeliana. A sua volta, l’attacco di Mosca all’Agenzia Ebraica o, più precisamente, la risposta del governo di Tel Aviv inciderà sulla campagna elettorale, visto che nessun politico israeliano vorrà essere associato alla chiusura degli uffici di questo ente in uno dei paesi che ha fornito il maggior numero di immigrati ebrei negli ultimi anni. Per comprendere l’importanza dell’Agenzia, è sufficiente citare un membro del governo israeliano che nei giorni scorsi ha definito l’iniziativa russa come “un attacco al cuore dell’essenza dello stato di Israele”.

Quali che siano i prossimi sviluppi relativi all’Agenzia Ebraica, nella giornata di giovedì si terrà un’udienza preliminare in un tribunale di Mosca, la gestione del caso non sarà semplice per Israele, visti i rischi che comporta una rottura con la Russia. I media locali hanno elencato una serie di misure che potrebbero essere adottate come ritorsione, tra cui il congelamento del trasferimento sotto il controllo russo di un complesso architettonico ortodosso a Gerusalemme, che Putin aveva concordato con Netanyahu, o il richiamo dell’ambasciatore israeliano a Mosca.

Intanto, una delegazione del governo di Tel Aviv dovrebbe recarsi in Russia a breve, a conferma della preferenza per una soluzione negoziata della crisi. Da parte del Cremlino sembrano esserci per ora segnali contrastanti. Martedì, il portavoce del presidente, Dmtry Peskov, è intervenuto sull’argomento per confermare che tutte le organizzazioni straniere presenti in Russia devono rispettare la legislazione russa. Peskov ha spiegato che la questione sarà risolta esclusivamente a livello legale, ma non dovrebbe causare alcun effetto negativo sui rapporti bilaterali.

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