Dopo quasi quattro mesi dall’inizio della “operazione militare speciale” russa in Ucraina, il vento della propaganda in Occidente sembra essere forse sul punto di cambiare. Il disastro militare a cui stanno andando incontro le forze del regime di Kiev, assieme alle conseguenze economiche provocate dalle sanzioni e al crollo dell’interesse dell’opinione pubblica per un conflitto venduto assurdamente come una battaglia per la democrazia, rendono sempre meno sostenibile la situazione attuale. Non è perciò da escludere che a breve ci possano essere cambiamenti nell’atteggiamento di Stati Uniti ed Europa, fino a una possibile cessazione delle ostilità.

 

Questo almeno sembra essere il significato di editoriali e articoli apparsi di recente sulla stampa ufficiale, segnati da toni pessimistici di segno molto diverso da quelli delle prime settimane della guerra, nonché delle prime avvisaglie di una corsa a scaricare le responsabilità di quanto sta accadendo in Ucraina. A farne le pese potrebbe essere proprio il presidente ucraino Zelensky, il cui status di “eroe” e “statista”, celebrato in tutte le sedi immaginabili in Occidente, rischia di crollare miseramente in parallelo con l’esaurimento dell’utilità del suo paese ai fini del raggiungimento degli obiettivi strategici di Washington.

La realtà sul campo si sta in definitiva imponendo malgrado lo schermo alzato sulla verità da media e governi occidentali. Le decine di miliardi di dollari in armi gettate nel buco nero dell’Ucraina non hanno fatto nulla e probabilmente nulla faranno per cambiare le sorti del conflitto. Soprattutto nella regione del Donbass la situazione è sempre più difficile da nascondere. Kiev continua a subire perdite di uomini che le stesse autorità ucraine stimano tra i 100 e i 200 al giorno. L’artiglieria russa colpisce senza sosta le postazioni e i depositi di armi ucraini, distruggendo spesso le armi inviate dall’Europa prima ancora che raggiungano il fronte. Il dramma che stanno vivendo i soldati ucraini si è trasformato infine in aperta ribellione contro i propri comandi, con il moltiplicarsi di diserzioni e denunce sui sociali media, tanto da far pensare a un imminente tracollo delle linee difensive nelle auto-proclamate repubbliche di Dontesk e Lugansk.

Uno dei primi segnali del fatto che la musica sulla stampa occidentale stava iniziando a cambiare era arrivato da un editoriale pubblicato il 19 maggio dal New York Times. Dal titolo “La guerra in Ucraina si sta complicando e l’America non è pronta”, l’articolo era uscito all’indomani dell’approvazione da parte del Congresso USA del pacchetto di aiuti a Kiev da 40 miliardi di dollari. Se si considera il ruolo del Times sia nell’orientare il dibattito pubblico americano sia nell’esprimere il punto di vista di una parte molto potente dell’establishment di Washington, il commento andava letto come un avvertimento ai promotori dell’offensiva contro Mosca dentro l’apparato di governo americano.

Da allora si sono moltiplicati gli articoli di tono simile. Lo stesso giornale newyorchese settimana scorsa aveva proposto una singolare “rivelazione”, secondo la quale l’intelligence USA non disporrebbe di informazioni sufficientemente chiare sulla situazione delle forze armate ucraine e sugli obiettivi del regime di Zelensky. Il pezzo sollevava il problema di una strategia dominata dall’invio a tappeto e senza controlli di armi in Ucraina in un quadro così confuso e con prospettive cupe per Kiev. Sullo stesso piano si collocano anche le notizie dell’apparizione di armi occidentali in vendita su siti del “dark web” ucraino” e l’avvertimento dell’Interpol circa la possibilità che molti di questi ordigni finiscano nelle mani di organizzazioni criminali.

Ancora, dal britannico Guardian a Newsweek si è aperta la discussione sulla carenza di munizioni e proiettili in dotazione dell’esercito ucraino, esposto al fuoco continuo di una potenza, come quella della Russia, che sta evidenziando una superiorità schiacciante. Con una dose di realismo quasi inedita fino a poche settimane fa, altri reporter di giornali “mainstream” ammettono che, per quanti sforzi possano fare l’Europa e gli Stati Uniti, la produzione e l’invio di materiale bellico non potranno mai arrivare a compensare le perdite subite quotidianamente da Kiev né tantomeno invertire gli equilibri della guerra.

Allo stesso scopo servono anche gli interventi di alti ufficiali e leader politici occidentali. In questi giorni è stata una dichiarazione dello stesso presidente americano Biden a scatenare una discussione sui rapporti tra Zelensky e la Casa Bianca. Parlando nel corso di una raccolta fondi per il Partito Democratico a Los Angeles, Biden ha raccontato di come il governo americano prima del 24 febbraio avesse più volte avvertito quello di Kiev dell’intenzione russa di invadere l’Ucraina, ma Zelensky “non ne voleva sentire parlare”.

L’uscita del presidente USA è quanto meno discutibile, visto che il suo governo ha fatto di tutto precisamente per provocare un intervento militare di Mosca in Ucraina. Stesso discorso vale anche per il coordinamento con Kiev nell’innescare un conflitto che era evitabilissimo. Al di là di tutto, il senso delle parole di Biden potrebbe fare intravedere l’inizio di un cambiamento di attitudine da parte degli Stati Uniti, i quali, com’è ben noto, non hanno nessuno scrupolo nel liquidare anche i più stretti alleati nel momento in cui diventano un peso o, come è probabilmente il caso di Zelensky, se su di essi possono essere scaricate le responsabilità americane.

Nella ricerca di indizi utili a comporre il quadro delle intenzioni USA, è utile segnalare anche una notizia data recentemente dalla CNN in merito a incontri andati in scena “regolarmente” tra esponenti dei governi di Washington, Londra e di paesi europei per discutere di “un potenziale impianto” su cui basare “un cessate il fuoco e un accordo di pace”. Il tutto senza la partecipazione diretta del regime ucraino. Un altro elemento è la dichiarazione rilasciata domenica dal segretario generale della NATO, Jens Stoltenberg, nel corso di un vertice con il presidente della Finlandia, Sauli Niinisto. L’ex primo ministro norvegese ha accennato al “sacrificio” che l’Ucraina dovrà accettare in termini di cessione del proprio territorio alla Russia per arrivare a un accordo di pace.

A ben vedere, il comportamento occidentale è doppiamente cinico nei confronti di Kiev. Dopo le prime settimane di guerra, era emerso che sulle aperture a Mosca di Zelensky per discutere almeno di una tregua c’era stato il veto di Washington, Londra e Bruxelles. Gli sponsor dell’Ucraina avevano di fatto fermato la diplomazia, imponendo la prosecuzione dello sforzo bellico con la promessa di una valanga di armi che avrebbero permesso di ricacciare oltre il confine russo le forze di Putin.

È evidente che già allora era ben nota la situazione reale e le possibilità effettive dell’Ucraina di resistere all’avanzata di Mosca. La guerra, assieme alle conseguenze in termini di distruzione, morte e sofferenza per la popolazione e i militari ucraini, è stata invece alimentata soprattutto dagli Stati Uniti con l’obiettivo non tanto di difendere l’inesistente paradiso democratico ucraino ma per indebolire la Russia e rompere i legami politici, economici ed energetici tra questo paese e l’Europa.

Con il procedere delle operazione russe, dunque, la finzione di una possibile vittoria dell’Ucraina è progressivamente crollata, risultando impossibile da sostenere nonostante la massiccia campagna di propaganda della stampa ufficiale e dei governi occidentali. In parallelo, lo spreco di risorse militari e i contraccolpi economici e sul piano energetico in Occidente delle sanzioni, che avrebbero in teoria dovuto colpire la Russia, stanno creando una situazione di crisi in Europa e negli Stati Uniti tale da richiedere decisioni che influenzino l’andamento degli eventi.

Il proseguimento del confronto “per procura” contro Mosca porta inevitabilmente al rischio di un conflitto anche nucleare con la Russia. Se si esclude questa soluzione catastrofica, l’alternativa è per forza di cose una qualche de-escalation, da implementare però in modo tale da venderla all’opinione pubblica occidentale come una sorta di vittoria o attribuendone il fallimento a soggetti diversi dai governi di USA ed Europa, ovvero a Zelensky e al suo regime.

Dopotutto, alla luce della quasi impossibilità di mettere in ginocchio la Russia o di rimuovere Putin, la guerra condotta “fino all’ultimo ucraino” ha già prodotto alcuni risultati importanti e quasi certamente duraturi per Washington, grazie soprattutto al servilismo europeo. Se l’Ucraina dovrà alla fine capitolare e cedere parti consistenti del proprio territorio, verosimilmente più consistenti di quanto non sarebbe accaduto in caso di implementazione degli accordi di Minsk, per gli Stati Uniti il bilancio non appare del tutto negativo, tanto più se si considera che la sorte del regime di Kiev o della popolazione ucraina non è mai stata di particolare interesse.

Il suicidio europeo è infatti ben avviato, così che la recessione che si sta per abbattere sul vecchio continente, in particolare sulla Germania, finirà per favorire la competitività del capitalismo americano. Lo sganciamento dalle forniture energetiche russe, anche se dilazionato nel tempo, determinerà una certa dipendenza dell’Europa anche in questo ambito dagli Stati Uniti. La NATO, poi, rimarrà l’elemento centrale dell’architettura della sicurezza europea, rallentando come minimo le forze centrifughe che erano emerse durante la presidenza Trump. Il vantaggio per Washington va calcolato infine anche in termini di fatturato per le compagnie produttrici di armi americane, pronte ad approfittare sia dell’aumento delle spese militari sia del possibile allargamento della NATO alla Svezia e alla Finlandia.

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